Capita che i libri siano portatori di miracoli. Anzi, un libro, quando brucia fino in fondo la distanza con il lettore – quando è amato per davvero da chi lo legge – lo fa sempre: il suo miracolo è quello di cambiare la vita di chi lo ha amato, di salvargli la vita. La letteratura salverà il mondo, credeva Ugo Riccarelli. Ed Erri De Luca, in una recente intervista, puntualizza che la letteratura o salva la vita adesso, oppure non lo farà mai. Non si tratta di un’utopia, ma di una realtà.
Ma come salva la vita? Lo fa, in quei fortunati e rari casi, facendoci vivere nel sogno. Un sogno che al risveglio illumina e dà un senso nuovo a tutto quello che abbiamo fatto e che faremo. Tutta la nostra vita, dopo che si è chiusa l’ultima pagina di un libro amato, acquista una nuova luce, uno splendore inedito. Talmente forte e reale da farci credere che tutto è possibile, che l’esistenza è una cosa meravigliosa e che qualunque possibilità ci è aperta, che siamo figli delle stelle e della terra, con i pori spalancati verso il migliore dei futuri. Tutto quadra, tutto torna, i dubbi si dissolvono, la chiarezza si fa strada e infonde energia pura.
Poi, a volte, rarissime, accade che un libro illumini davvero una parte della nostra vita. Non è soltanto il fatto che un libro ci parla, che sembra parli solo e soltanto a noi, che ci tocchi, che ci illumini e dia energia. E il fatto che parla proprio di noi, parla proprio di me, con il mio nome e il mio cognome. E a quel punto qualcosa scatta per forza.
È odioso per uno scrittore parlare dei propri libri, come di una persona parlare troppo di sé. Eppure è quello che a me è accaduto, in quanto scrittore, e non posso fare a meno di raccontarlo. Il miracolo è accaduto, e questa volta al contrario. Io, autore, sono stato colpito dalla luce riflessa da un lettore. Una lettrice, per la precisione.
In un libro, “Alveare” (Rizzoli 2011, in ri-uscita l’8 gennaio 2014 nell’Universale Economica di Feltrinelli), mettendomi completamente a nudo ho raccontato la mia storia e la mia esperienza di nato e cresciuto in un territorio (la periferia nord di Milano, Bresso, per la precisione) colmo di ‘ndrangheta. E in quel libro, quindi, non ho potuto non raccontare l’episodio che ha fatto scaturire tutto, che per sempre mi ha cambiato la vita: il fatto di aver assistito, a quattordici anni, a un duplice omicidio, in una via centrale di Bresso, un sabato pomeriggio. Duplice omicidio in cui sono rimasti uccisi – anziché i due boss potentissimi che dovevano rimanere per terra, nelle intenzioni dei killer – due passanti innocenti, Pietro Carpita e Luigi Recalcati.
Quella violenza inaspettata e improvvisa mi aveva sconvolto. Per giorni e notti non ho potuto togliermi quei suoni, quei rumori, quelle visioni, quella violenza, quella banalità del male, dalla testa. In Alveare ho quindi raccontato quel giorno, poi ricostruito attraverso studi e interviste, insieme a tutto quello che lo aveva preceduto – nelle dinamiche dei clan che si stavano facendo la guerra a due passi da casa mia nel silenzio totale – e a quello che è seguito (una faida che in circa tre mesi ha visto morire 25 persone).
Ma ecco il miracolo. Mai avrei potuto immaginare che quel racconto, che reputavo così privato, andasse invece a illuminare così precisamente la vita di un’altra persona, lontana da me e mai incontrata, e di cui neppure sospettavo l’esistenza.
Qualche giorno fa Emanuela Carpita, la figlia di Pietro, mi ha scritto questo messaggio su facebook, che riproduco con il suo consenso: “Salve sono Emanuela Carpita, il mio cognome non le risulterà nuovo. Sono la figlia di Piero Carpita ucciso dalla criminalità organizzata il 15-09-1990. La contatto solo per ringraziarla. Ho letto il suo libro, “Alveare“, e finalmente sono riuscita a capire le ragioni della morte di mio padre. A Bresso ho vissuto solo fino ai sei anni perché poi mia madre ha deciso di allontanare me e mia sorella da quell’ambiente. La ringrazio perché di quel maledetto giorno ho pochi ricordi (avevo solo 4 anni) e ora e tutto più chiaro. Qualche volta ritorno a Bresso, forse con la stupida idea di poter incontrare e conoscere mio padre, (magari proprio nel bar di Dina dove il sabato pomeriggio andava a prendere il caffè) il cui ricordo è sempre più sfocato. I suoi libri sono una grande fonte a cui tutti dovrebbero attingere per aprire gli occhi e vedere e capire la situazione economica e politica del Nord. Complimenti!!! Spero,un giorno, di poterla conoscere. La ringrazio nuovamente! A presto Emanuela Carpita.”
Ecco, di nuovo, il miracolo. Ecco cosa è passato attraverso il filo invisibile di un libro, quello che lega chi lo scrive a chi lo legge. Quando Emanuela mi ha scritto quello stesso dardo ha colpito con la medesima potenza me. Un libro può davvero illuminare una vita, ora ne ho la certezza.
Anzi, due. Grazie, Emanuela.