Non volevo entrare nella polemica Boldrini e pubblicità. Mi ero promessa di non entrare in querelle inutili, ma dopo la levata di scudi  a difesa del ruolo muliebre, rompo la promessa.  La mobilitazione sul web, in  difesa della donna che scodella cibo in tavola e la pubblicazione sul blog di Beppe Grillo, dell’epistola con moraletta di una sciura, moglie di un uomo di fede di Berlusconi: una avvocata che avrà cinque filippine a pulirle casa, rassettarle i letti e a servirla in tavola, hanno spinto le mie dita sulla tastiera.

Ho pensato a tutte le massaie che si scapicollano a lavorare in fabbrica, a pulire casa, a pulire il culetto ai bambini e ad accudire i nonni, che la sera vorrebbero solo tirare il fiato sul divano e farsi servire da figli adolescenti o mariti; ho pensato alle operaie e alle impiegate che incontro per lavoro (non nel centro antiviolenza), rancorose e stanche di accudire ad libitum figli e figlie venticinquenni, mariti cinquantenni o sessantenni privi di handicap, capaci di rimontare un motore e quindi anche, suppongo, di apparecchiare e scodellare pietanze.  

Le ho pensate mentre leggevo la valanga di attacchi alla Boldrini solo perché ha osato dire ad un convegno “Media e Pubblicità” (capito? Ad un convegno sul tema), che qualche spot potrebbe rappresentare altro. A quelle donne stanche di essere all’altezza dell’immagine che la società e la cultura impone loro. Convinte di essere onnipotenti e wonder woman.  A quelle dispensatrici di cure a vita, perché non si pensa mai, che anche loro abbiano bisogno di cure: nemmeno loro stesse;  a quelle donne, dispensatrici di nutrimento a vita, senza che nessuno pensi mai, che anche loro abbiano bisogno di essere nutrite: nemmeno loro stesse;  a quelle donne che alla fine esauriscono la loro capacità di nutrire e accudire e scodellano in tavola, insieme al cibo, silenzi, rancorose ostinazioni e colpevolizzazioni varie, (con tutto quello che faccio per voi, avete presente?), dedico questi miei ricordi. Amarcord.

Quando mia madre partiva per un mese, in una specie di comune a fare yoga, mio padre si metteva ai fornelli. Tornavo da scuola sentendo fin dalla strada profumi e aromi, e seduta a tavola gustavo piatti elaborati che mia madre non aveva mai il tempo di cucinare! Fegato alla veneziana, polenta con salsiccia, pasta al forno, e tanti altri. Poi mi toccava pulire una decina di  pentole, e lo facevo in allegria. Quando frequentai, a Bologna, l’Università, abitavo in  un piccolo appartamento con quattro amiche e sul mio piatto  transitavano solo polpettone,  insalatine o petto di pollo comprato al supermercato (sapeva di detersivo al limone).

Quando volevo prendere una pausa dalla mia alimentazione monotematica, non potendo chiedere alle amiche di cucinare per me (mi avrebbero tirato un piatto in testa!), andavo a casa del mio moroso. Studiava ingegneria con cinque ex compagni di liceo, erano sempre chini sui libri e sempre con qualcosa di profumato nel forno o in pentola. Quando arrivavo a casa loro, senza chiedermi nulla, moroso e amici, aggiungevano un bicchiere e un piatto a tavola per me.

Molti anni dopo, ho sposato un uomo con cui scambio i compiti quotidianamente. Spesso fa la spesa e cucina, e porta in tavola piatti deliziosi. Ci  nutriamo e ci curiamo a vicenda. Speriamo così, che nessuno dei due  si esaurisca,  e nessuno dei due colpevolizzi l’altro per quello che fa. Fino ad oggi, ha funzionato. Ci sono alternative ai modelli imposti, perché? Perché anche gli uomini possono fare tutto quello che fanno le donne, anche meglio.

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