Dietro le frasi di cordoglio si nascondo anche le responsabilità sulla tragedia costata la vita ad almeno cento migranti. I patti di collaborazione con Tripoli - a luglio quello firmato da Alfano - restano spesso lettera morta. L'Europa ci condanna, ma poi taglia le risorse ai pattugliatori di Frontex
“Una tragedia annunciata”, una strage che “si poteva evitare”. Sono unanimi i commenti dei politici e delle istituzioni in un’Italia sotto choc per l’ennesima mattanza dei disperati del mare sulle nostre coste, avvenuta a Lampedusa. Ma tocca anche riempire di contenuti quelle affermazioni, capire perché era annunciata e, se si poteva evitare, perché non lo si è fatto. Tocca allora srotolare un pezzetto, almeno il più recente, della storia che sempre vede il nostro Paese come la frontiera tra le terre da cui si fugge e quelle in cui si cerca salvezza. E a quanto pare è piena di contraddizioni, errori e omissioni. Si può partire ricordando – come fanno molte associazioni in queste ore – che l’Italia di frontiera che chiede all’Europa un aiuto nella gestione dell’emergenza è la stessa di retroguardia che, non più tardi di un anno fa, l’Europa condannava per respingimenti forzati, in violazione dei diritti umani, proprio verso la Libia, da dove è partito il barcone della strage. Si deve tornare anche all’ultimo atto ufficiale tra Italia e Libia che non risale ad anni fa ma allo scorso luglio, quando scenari funesti prefiguravano uno tzunami di disperazione sulle nostre coste di popoli in fuga da guerre e primavere arabe sfiorite nella violenza.
Vero o presunto che fosse quell’allarme, Alfano e il ministro degli Esteri Mohamed Emhemmed Abdelaziz il 4 luglio a Palazzo Chigi hanno firmato un accordo di cooperazione che prevedeva un impegno di Tripoli a controllare le coste in cambio di quello italiano nella formazione e addestramento delle forze di polizia. Alfano annunciò anche l’istituzione di un “gruppo di lavoro permanente di alto livello” incaricato di dare seguito concreto all’accordo per “far fronte all’immigrazione clandestina”. Ma non se ne ha avuto più notizia e non solo oggi, al secondo naufragio sulle nostre coste in una settimana. Neppure il 30 settembre, quando 13 eritrei sono annegati al largo di Ragusa, in Sicilia.
“Qualcosa di strano li è successo”, spiega Gabriele Del Grande di Fortress Europe, osservatorio sulle vittime della frontiera. “Non si capisce come l’imbarcazione sia stata avvistata solo sotto costa e non in alto mare. Forse, ma è un’ipotesi, l’afflusso massiccio nella Sicilia sud orientale e quello modesto a Lampedusa ha indotto qualcuno a ridurre il pattugliamento. Se fosse stata soccorsa prima le possibilità di salvare le vittime sarebbero state maggiori”. E il pensiero torna al nodo della questione: “Ora si dirà che sono gli esuli delle primavere arabe e che l’Italia rischia di essere invasa da popoli in fuga. Non è vero. La stessa guerra in Siria ha indotto circa 4mila siriani a cercare riparo in Italia a fronte di 2 milioni di rifugiati siriani nei paesi confinanti la Siria e 4 milioni di sfollati interni. Dalla Tunisia dopo il crollo della dittatura del 2011 sono arrivate 25mila persone nel 2011, poi quasi nessuno.
“Il problema”, continua Del Grande, “è sempre lo stesso, di un parte del mondo cui non è concessa la possibilità di muoversi e migrare. A bordo dei barconi sono somali, eritrei, siriani, che non avendo la possibilità di emigrare regolarmente si rivolgono ai contrabbandieri. E qui l’Europa e l’Italia hanno le loro colpe”. Per la prima il fatto di ostinarsi a scaricare il problema sui paesi d’ingresso, per la seconda l’ambiguità delle politiche verso l’immigrazione unita alla debolezza nel rivendicare le proprie ragioni. “Non siamo mai andati a rinegoziare i Regolamenti di Dublino che consentono asilo solo nel Paese in cui sono state prese le impronte digitali”. Con l’effetto che dagli altri Paesi della Comunità rispediscono gli immigrati in Italia come prodotti non graditi. Del resto parla di un “crimine” e non di tragedia il Movimento Migranti e Rifugiati, indicando una precisa volontà di non cambiare il tessuto legislativo della Bossi-Fini in Italia e allo stesso tempo di mantenere quegli accordi comunitari che chiudono i rifugiati nella “gabbia europea”.
Proprio l’ambiguità dell’Italia, che rischia anche di riverbersarsi sulle diverse anime del governo Letta, ha visto prevalere lo sguardo a senso unico sul mare, quello del contrasto all’immigrazione irregolare, del respingimento, della paura. Anche quando non era politicamente presentabile. E’ accaduto un anno e mezzo fa quando, il 3 aprile 2012 il ministro Cancellieri ha firmato a Tripoli un accordo bilaterale con il consiglio di transizione libico che autorizzava le autorità italiane ad intercettare i richiedenti asilo e a riconsegnarli ai soldati libici. Dell’accordo non si sa niente per tre mesi. A giugno Amnesty International solleva il caso rivelando la mancanza di impegni sul fronte dei rifugiati. “Non sono neppure citati nell’accordo”, denunciava l’allora portavoce dell’alto commissariato Onu Laura Boldrini. Nel giro di poche ora il ministro Terzi è costretto a fornire rassicurazioni senza però negare la circostanza o assumere impegni vincolanti. Del resto il tema era scottante per l’Italia.
Mentre il nostro Paese chiedeva all’Europa di “fare la sua parte” e non essere lasciato solo, di istituire corridoi umanitari e una cabina comune di regia, incassava proprio dall’Europa l’infamante accusa di aver respinto nelle braccia dei soldati migranti in fuga per motivi politici. Il caso era scoppiato nel 2009, quando 11 somali e tre eritrei insieme ad altre 200 persone erano state imbarcate su navi italiane per un ritorno forzato a Tripoli. L’Italia aveva sostenuto che era un’operazione di salvataggio, ma non aveva neppure spiegato ai migranti che stavano facendo rotta dall’inferno da cui scappavano. La Corte Europea il 3 aprile 2012 condanna l’Italia per violazione dei diritti umani per quei respingimenti in mare perché “chiunque sale a bordo di una nave italiana deve essere soggetto alla Convenzione dei diritti umani”. Il governo accetta la sentenza e si impegna al “rispetto assoluto dei diritti umani e alla salvaguardia degli uomini in mare”.
Anche l’Europa, rilevano molti in queste ore, non è esente da colpe. Da Roma si chiama in causa Bruxelles e non solo per il discarico di responsabilità ma anche per il disinvestimento sui controlli. Qualcuno oggi ha ragione di chiedere “dov’erano le motovedette di Frontex”. Si tratta del sistema di avvistamento in mare voluto dall’Ue, che oltre a garantire l’inviolabilità delle frontiere europee – nelle intenzioni di chi lo ha ideato e finanziato – doveva intervenire anche per operazioni di salvataggio in mare. La risposta è che non c’è. Perché in tre anni la struttura operativa nata nel 2004 ha perso per strada quasi un terzo delle proprie risorse. Tra il 2011 e il 2013 l’agenzia ha visto ridursi il proprio budget da 118,2 milioni di euro a 85,7 milioni, con una flessione del 27,5%. Un taglio contro cui si è scagliato anche il Presidente della Repubblica. Nel rapporto 2012 l’agenzia rilevava che lo scorso anno gli ingressi illegali all’interno dell’Unione Europea sono diminuiti “sensibilmente” a circa 72.500 rilevamenti, la metà del 2011. Ma anche le risorse si sono prosciugate, con riflessi sull’operatività dell’agenzia, visto che una fetta importante del budget del 2012, il 67%, è stato dedicato alle attività operative dell’agenzia.