Entro il 15 ottobre andrebbe approvata la legge di Stabilità, lo strumento attraverso il quale il governo dovrebbe articolare i propri obiettivi economici per il prossimo triennio e spiegare come intende raggiungerli. Si sa poco o nulla su quale sia la proposta di legge di Stabilità che il governo Letta intenda portare in Parlamento, dopo la fiducia incassata martedì. Il dubbio che molti hanno è che il ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, sia in totale solitudine, assediato dalle richieste dei partiti e delle parti sociali.

Non ci si rende conto che siamo l’unico Paese europeo, tra quelli in maggiore difficoltà, che non sta convergendo: il nostro debito pubblico è in crescita inarrestabile, il rapporto tra debito e Pil era pari a 119 per cento nel 2010, è salito a 121 nel 2011, a 127 nel 2012, quest’anno arriverà a 132 per cento e le previsioni sono per una crescita a 133 per il 2014. La spesa per interessi sul debito pubblico è oltre il 5 per cento del Pil. L’Italia è in recessione da due anni, la disoccupazione è su livelli altissimi, i consumi interni sono crollati, la diseguaglianza nella distribuzione del reddito e della ricchezza è tra le più elevate tra i paesi avanzati.

La probabilità di una revisione peggiorativa del rating del nostro debito pubblico è molto alta, forse quasi certa. Il rating dell’Italia è ora BBB, la soglia minima per avere il cosiddetto investment grade sui titoli a reddito fisso. Se scendessimo al di sotto di questo rating le banche estere, i fondi d’investimento, le società di assicurazione difficilmente acquisterebbero Btp italiani. Insomma, la situazione italiana è molto seria, ma c’è un enorme divario tra le richieste dei partiti e ciò che l’attuale governo è in grado di fare. Servirà innanzitutto riportare il deficit pubblico entro il 3 per cento, ora viaggia sul 3, 1, si tratta quindi di trovare 1, 6 miliardi di euro. Per rinviare la seconda rata dell’Imu servirebbero 2, 4 miliardi. Per evitare l’aumento dell’Iva (o meglio, a questo punto per ridurlo, visto che è già scattato) ci vogliono 4 miliardi all’anno.

Poi ci sono una serie di spese inderogabili: 265 milioni di euro per le missioni di pace, 330 milioni per la cassa integrazione in deroga, 35 milioni per la social card. Si è anche parlato di un taglio del cuneo fiscale, promesso più volte dal premier Letta, riducendo l’Irap sul lavoro come azione per contrastare la disoccupazione. Una stima del costo di questa misura è di circa 4 miliardi di euro. Se conteggiassimo tutte queste voci si arriverebbe come minimo a 12 miliardi di euro di minori entrate e di spese da dover finanziare.

Per capire quanto sia debole la capacità d’azione del governo è sufficiente ragionare sul fatto che Saccomanni per settimane ha avuto difficoltà a trovare un miliardo per scongiurare l’aumento dell’Iva di qui a fine 2013. Per compensare il taglio dell’Imu, sarebbe prevista la service tax a favore dei Comuni. Si vocifera di privatizzazioni per 8 miliardi. Ma sarebbero finte privatizzazioni: si cedono azioni alla Cassa depositi e prestiti che quindi anticipa con soldi pubblici. Il quadro si fa ogni giorno più fosco se si mette in conto l’aumento dello spread. Da qui al giugno 2014 dobbiamo emettere nuovi titoli pubblici per circa 240 miliardi di euro. Un aumento dei rendimenti per un solo punto equivarrebbe a 2, 4 miliardi di euro di spesa in più, cioè quanto serve oggi per rinviare la seconda rata dell’Imu. Il momento richiederebbe un bagno di serietà.

Letta dovrebbe presentarsi in Parlamento e chiedere un voto di fiducia su un programma minimo ma credibile. Una legge di Stabilità che riporti il deficit al 3 per cento. Nessun rinvio dell’Imu. Nuova legge elettorale. Ho seri dubbi sul-l’efficacia di una riduzione del cuneo fiscale. Nel 2008, il governo guidato da Romano Prodi ridusse di cinque punti il cuneo fiscale, tre di riduzione per le imprese, due per i lavoratori dipendenti, costò circa 10 miliardi di euro. Si tradusse in un risparmio per le imprese di circa una trentina di euro al mese per ogni dipendente, e in un maggior reddito netto in busta paga, per i lavoratori, di una ventina di euro mensili. Effetti positivi sull’economia: quasi nulli.

La priorità oggi è contrastare il disagio sociale e rilanciare la crescita. Vanno dati semmai soldi alle famiglie meno abbienti rinunciando al taglio del cuneo fiscale. Ma è chiaro che qui stiamo parlando di minuzie. La gravità del quadro economico richiederebbe ben altro. Serve un governo, con un mandato forte, capace di contrattare oggi stesso con l’Unione europea una deroga alla soglia del 3 per cento per deficit per un triennio: per una seria riduzione delle imposte su imprese e famiglie (30-40 miliardi di euro) in cambio di profonde riforme strutturali su concorrenza, taglio tasse e spesa pubblica, Pubblica amministrazione, ricerca e innovazione. Questo è il momento, per chi vuole diventare classe dirigente, di scindere le proprie sorti dalla deriva eversiva che rischia di portarci verso la perdita di sovranità e al commissariamento da parte della troika.

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