In principio furono gli spifferi saputi sulle pratiche bancarie che avrebbero portato l’Islanda al collasso nel 2009-2010, ma anche l’evasione fiscale della banche svizzere, la corruzione governativa in Kenya. Quegli spifferi aprirono porte e coscienze: WikiLeaks trovò adepti e “fornitori” in tutto il mondo. Ma il meglio doveva ancora venire, l’obiettivo era a stelle & strisce: segreti e bugie militari e diplomatiche made in Usa. Sulla graticola, gli interventi in Iraq e Afghanistan, nel mirino la sporcizia dello zio Sam: questo, e il resto, sono storia, la storia di Wiki-Leaks.

Il 24 ottobre uscirà nelle nostre sale Wikileaks – Quinto potere, il biopic-thriller di Bill Condon con Benedict Cumberbatch e Daniel Brühl già ampiamente massacrato dalla critica americana: la domanda di senso, piuttosto, è un’altra, quando gli italiani potranno vedere We Steal Secrets: The Story of WikiLeaks del premio Oscar Alex Gibney? Alla Mostra di Venezia ha incantato con The Armstrong Lie, sulle gambe corte del ciclista texano e dopato Lance, al Sundance aveva portato questo Wiki-documentario, che ora arriva al 15 ° Rio de Janeiro International Film Festival nella sezione “TEC: Before the virtual world, was the privacy”.

E trova ottima compagnia, per chi tra una chattata e un tweet, una mail e Facebook s’è mai posto il dubbio: chi di tech ferisce, di tech perisce? Già, oggi la paura non corre più sul filo, ma wireless, e Rio certifica: per cervelloni e cibernetici, ecco Google and the World Brain di Ben Lewis; TPB AFK: The Pirate Bay Away From Keyboard di Simon Klose, per quelli che … la condivisione è un Torrent; Terms and Conditions May Apply di Cullen Hoback, sui costi dei “servizi gratuiti” e la scomparsa della privacy online; The Network di Eva Orner, sulla ricostruzione televisiva, e mediatica, dell’Afghanistan; Downloaded di Alex Winter, sull’ascesa e caduta di Napster, e InRealLife di Beeban Kidron, sui ragazzini porno-dipendenti, le ragazzine disposte a tutto (sesso) per riavere il Blackberry e altre amenità social.

Scaricateli (si può dire?) se gradite, ma su tutto è lui, Julian Assange, l’eroe libertario 2. 0 per antonomasia, secondo gli estimatori; una paranoica e incoerente rockstar smanettona, per i crescenti detrattori. Gibney non sceglie, meglio, ci dà molti elementi per farlo noi stessi. Piuttosto, mette sotto benevoli riflettori un altro eroe, un soldatino qualsiasi, in piena crisi di (identità) di genere, quel Bradley Manning che fu “la” fonte di Assange e ora ha pagato: il 21 agosto è stato condannato a 35 anni di prigione.

Fatale fu, tra le altre cose, il video Collateral Murder fornito a WikiLeaks: 12 civili, tra cui due giornalisti, impunemente falciati dagli elicotteri Apache a Baghdad. Gibney ha una documentata frequentazione col Potere: prima di inchiodare Armstrong sull’equazione “io valgo (tanti soldi), ergo posso mentire”, aveva fatto neri gli energetici furbetti di Enron: The Smartest Guys in the Room e le scappatelle dell’ipocrita Eliot Spitzer (Client 9), qui punta nuovamente a far saltare il banco, ma con sottigliezze da consumato pokerista: caro, eroico Assange, smascheri le magagne globali e fai firmare accordi di riservatezza ai tuoi collaboratori, ti presenti quale refugium peccatorum per quanti abbiano qualcosa da svelare, e poi te ne freghi della sorte dei tuoi stessi informatori

Di Julian rimane un fatto, anzi, due: le accuse di stupro ai danni di due donne in Svezia, e altri soldi. In We Steal Secrets compare solo in immagini e video di archivio, per farsi intervistare da Gibney aveva chiesto un milione di dollari. Gratis? Solo se Alex nel film avesse spiato altri, ovvero chi voleva lui. Sicuri che le esose parcelle degli avvocati spieghino tutto?

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