Cinema

Carlo Lizzani, il regista suicida a 91 anni

Il cineasta - che ha diretto anche la mostra di Venezia - aveva 91 anni. Si è lanciato dal terzo piano della sua casa in via dei Gracchi, nel quartiere Prati, nel centro di Roma. Una fine che ricorda quella di un altro grande artista del grande schermo, Mario Monicelli

di Davide Turrini

Il regista Carlo Lizzani è morto suicida a Roma. Si è gettato dal balcone di casa, al terzo piano di via dei Gracchi intorno alle 15. Aveva 91 anni. Alcuni passanti si sono accorti del corpo, hanno chiamato un’ambulanza, ma ormai non c’era più nulla da fare e dopo pochi minuti Lizzani è spirato. Sul posto sono intervenute le forze dell’ordine. Dalle prime indiscrezioni sembra che Lizzani fosse depresso a causa della malattia della moglie ed aveva lui stesso problemi di salute. Il regista, come confermato dai figli, era assistito da una badante. Il suo suicidio ricorda il gesto compiuto da Mario Monicelli il 29 novembre del 2010 dal secondo piano della clinica in cui era ricoverato, minato da un cancro alla prostata in fase terminale. E come Monicelli, Lizzani era uno di quei cineasti del dopoguerra italiano che aveva lavorato per decenni alla rinascita del mondo cinematografico italiano, attraversando il neorealismo agli albori, e poi intraprendendo una sua personalissima carriera fatta di cinema di genere con pellicole western, polizieschi e storici.

Nel 1996 con Celluloide aveva rievocato le travagliate e avventurose fasi di lavorazione di Roma città aperta. L’ultimo film di fiction uscito in sala, nel 2007, fu Hotel Meina ambientato sul Lago Maggiore l’8 settembre 1943 e con al centro la tragica vicenda di una strage dimenticata di 54 ebrei. Lizzani iniziò prima come critico cinematografico negli anni trenta/quaranta per le riviste Bianco e Nero e Cinema, poi finita la guerra fu soggettista e sceneggiatore per Giuseppe De Santis con Riso Amaro (1947), poi per Roberto Rossellini in Germania anno zero (1948) con tanto di premio per lo script al festival di Locarno. Nel 1951 l’esordio alla regia con Achtung! Banditi!, esperimento produttivo anticonformista per l’epoca, per cui venne fondata una cooperativa ad hoc e che vedeva la ribellione di operai e partigiani di Genova ai nazifascisti.

Che Lizzani avesse in nuce un’idea di cinema più spettacolare e di genere, senza perdere il cosiddetto impegno politico di quegli anni, lo si capisce fin dall’esordio. Sia ne Il gobbo (1960) che ne Il processo di Verona (1963) la materia pulsante è ancora quella delle macerie storiche di un fascismo ancora fumante. Ma Lizzani nel raccontare le gesta ribelli di un bandito delle periferie romane e poi ancora dei sei firmatari dell’ordine del giorno che sfiduciò Mussolini il 25 luglio del ’43 – tra cui il genero Ciano – mette in risalto la dimensione genetica hollywoodiana del cinema, senza mai perdere l’orientamento della veridicità storica. Negli anni sessanta il vero boom anche quantitativo di film girati. Prima spiazza tutti e riporta La vita agra di Luciano Bianciardi al cinema (1964) con un Tognazzi (e uno Jannacci) da antologia; poi è il momento dell’esalogia sulla criminalità.

Si inizia con Svegliati e uccidi, sul bandito Lutring (1966); Banditi a Milano (1968) con Volontè nella parte del temibile Cavallero; e ancora Roma bene (1971), Torino nera (1972), Storia di vita e malavita (1975) e infine San Babila ore 20: un delitto inutile (1976), nessun divo e quasi cronaca in presa diretta per raccontare un delitto compiuto da tre neofascisti. Poi ancora cinema di genere con l’erotico Kleinhoff hotel (1977) girato a Berlino con Corinne Clery e ancora un fatto di cronaca in Mamma Ebe (1982) sulla supposta guaritrice Ebe Giorgini, caso giudiziario che appassionò l’Italia e provocò non pochi grattacapi per la produzione Clemi. Senza dimenticare un film di un coraggio assoluto come il western Requiscant (1967) interpretato da Pier Paolo Pasolini e Lou Castel in piena epoca sessantottina. Un legame con la politica, e ancor più precisamente con il Pci, del quale Lizzani fu attivista e poi quadro dirigente, tanto che cercò di avvicinare al partito colleghi come Rossellini, De Sica e Germi, che comunisti non erano: “Non influenzare ma sostenere mi diceva Pajetta”, spiegò Lizzani nella sua autobiografia, “cercai di attrarli nell’orbita Pci non per fare proselitismi ma perché il Pci era il principale sostenitore delle battaglie contro la censura dell’epoca”. Lizzani è anche stato direttore della Mostra del Cinema di Venezia dal 1979 al 1983. “So che avrei potuto raggiungere vette più alte nel cinema se avessi seguito un solo sentiero”, spiegò una decina d’anni fa il regista romano, “Ho fatto un cinema popolare, mi sono cimentato con tutti i tipi di personaggi, mi sono divertito, il cinema mi ha portato in Africa, in Cina, in America. Forse mi sono servito del cinema per vivere con maggiore intensità, ma non ho mai messo la mia vita al servizio del cinema”.

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