Scrivo mentre ritorno dall’isola di Lampedusa, scrivo a caldo, con le emozioni ancora in fermento. In questi giorni, volutamente non ho letto i giornali. Mi sono limitato a scorrerne velocemente i titoli. Una sorta di peccato mortale per un giornalista, ma è stato un peccato commesso volontariamente. Sapevo che non avrei retto la miseria di certi commenti. Mia figlia mi chiama indignata per quello che hanno vomitato i giornali di destra. Le dico di non curasene e parliamo d’altro, di cose più vere.
Qualcuno mi chiede di cercare a Lampedusa cittadini incazzati con i migranti. Non so cosa abbia in testa chi mi fa questa richiesta, ma di gente così a Lampedusa non se ne trova. Ho consigliato di cercare in qualche covo della Lega Nord, di sicuro la ricerca sarebbe stata fruttuosa.
Oggi leggo sula rete commenti vergognosi; li leggo, mano a mano banno gli autori, ma quei commenti non li sento. La miseria umana che sta dietro certe frasi, la povertà intellettuale e morale di chi dice “noi non abbiamo lavoro, questi qui che vogliono? pensiamo alle famiglie italiane che non arrivano a fine mese”‘ vanno sentite, non vanno ascoltate…
Resta nelle orecchie, nel cervello invece il racconto di un uomo. Si chiama Simone, ha circa la mia età e fa il sub. Ha fatto tante interviste, ma ieri pomeriggio eravamo a chiacchierare, insieme ad alcuni pescatori, davanti al molo Favarello. Simone dovete sapere è stato il primo subacqueo a scendere giù nello sprofondo dei 47 metri, ha legato con una cima i corpi sparsi sul fondo e li ha riportati su uno ad uno. Quello che ha visto giù non lo ha mai raccontato del tutto, perché l’orrore non è narrabile, non può diventare televisione, non può diventare pezzo giornalistico. L’orrore lo respiri. E Simone lo ha respirato e ne è rimasto intossicato. Mi parla piano, sottovoce. Dice anche con i silenzi, come noi siciliani facciamo sovente, quello che le parole non sanno dire. I morti lì sotto sono centinaia, non è possibile entrare nella barca che giace intatta sul fondo sabbioso. Si può solo gettare lo sguardo. A bloccarti una muraglia informe costituita da esseri umani. Il racconto sommesso di quest’uomo sensibile, schivo ti spezza il fiato e ti fa misurare la tragedia, nei suoi esatti termini di dolore, di angoscia, disperazione e terrore. La morte liquida, consumata nel buio, nello spazio ristrettissimo nel quale i trafficanti avevano ammassato cinquecentodiciotto persone, non può conoscere aggettivi, non conosce ragione, logica, consolazione.
Mi torna dentro il racconto teso di Alessio, che lavora per Save the children. Ci sono quaranta ragazzini tra i quattordici e i diciassette anni che sono stati tratti in salvo, molti di loro viaggiavano con genitori e parenti che oggi non sono tra i superstiti. Una frase fredda che vuol dire che non hanno più nessuno.
Sono immagini lampi che illuminano una realtà che questo Paese non vuole conoscere, schegge di storie, di fronte alle quali la coscienza di questo Paese, ammesso che ancora ne esista una, non reggerebbe.
Ho scritto sulla mia pagina facebook accanto la foto delle centoundici bare allineate, come un reparto militare in tragica parata, con le bare dei bimbi a far da ufficiali, che li abbiamo tutti sulla coscienza questi e gli altri morti di questo esodo senza alcun Mosè. Qualcuno si è indignato, dicendo che vanno messi in conto ai politici. Non sono d’accordo. Stanno in conto a tutti noi. La politica la facciamo noi, siamo noi che votiamo i cialtroni, è la pancia di questo nostro Paese ad aver applaudito alla Bossi-Fini, è l’egoismo, la paura collettiva di fronte all’apertura all’accoglienza che ci ha fatto rifugiare dietro i reticolati sgaruppati di xenofobi da operetta, dietro gli slogan ringhiati da un Bossi qualsiasi, invece di batterci con tutte le nostra forze affinché l’Europa si facesse collettivamente carico di questo esodo che va avanti da un tempo infinito e che, perdurando le condizioni attuali, non può interrompersi. Di fronte alla stupidità abbiamo rinunciato, per pavidità e pigrizia, ad imporre l’intelligenza.
Basterebbe solo questo per far dire che siamo tutti padri e madri di queste tragedia. Lo siamo non solo per l’oggi, ma anche per il debito che abbiamo aperto con la Storia. Noi italiani, colonizzatori spietati in Eritrea da dove provengono quasi tutti i migranti coinvolti nella tragedia di giovedì, ma anche della Somalia e della Libia, e l’Europa tutta che gode del benessere dell’oggi costruito con due secoli di rapina colonialista dell’Africa, un continente verso il quale tutti abbiamo un debito insanabile, che si allarga e cresce con la sistematica devastazione che l’occidente coltiva in Africa, foraggiando con armi e denari governanti corrotti, dittatori spietati, in cambio del perdurare dello sfruttamento sistematico delle risorse.
I migranti non nascono da soli, non sono generati dal nulla. Sono figli nostri, del nostro stile di vita, del nostro non porci domande in nome del denaro. Per questo non mi sento assolto, per questo nessuno può sentirsi assolto. Per questo forse guardare questi fatti con pudore e umiltà può essere una salvezza.
Linda vive a Lampedusa per metà dell’anno, è una delle persone che hanno salvato quarantasette migranti. Ieri Linda e i suoi amici hanno nuovamente incontrato i ragazzi, che avevano tirato fuori dal mare, li hanno incontrati davanti a quella terribile parata di bare. I ragazzi li hanno riconosciuti e sono corsi a ringraziarli per averli salvati. Ieri sera Linda mi ha scritto una frase verissima, che mi permetto di rendere pubblica. “Sono venuti a ringraziarci perché gli abbiamo salvato la vita, ma forse loro l’hanno salvata a noi”.