Sette persone aggredite e tre morti. A sprangate prima, a picconate poi. Un’ora e mezza di terrore per le strade del quartiere milanese di Niguarda. Era il 11 maggio 2013. Dalle 04 e 30 alle 06 e 30. Alba di sangue ricostruirono i carabinieri. Primo morto: Ermanno Masini “aggredito con violenza inaudita”. Secondo morto: Alessandro Carolè ucciso “infierendo con sconvolgente brutalità”. Terzo morto: Daniele Carella “la cui uccisione è ripresa da un filmato di videosorveglianza che ne testimonia con tragica efficacia l’efferatezza”. In manette un solo killer: Adam Kabobo, anno di nascita 1982, data, si saprà, inventata. Ghanese di origine, poi migrante e alla fine giustiziere. Pazzia, si disse. Infermo di mente. Incapace, anche, di partecipare al processo. Nulla di tutto questo perché la perizia depositata in questi giorni dal gip di Milano Andrea Ghinetti dice altro: Kabobo “è capace di partecipare coscientemente al processo”. A provarlo quasi duecento pagine di analisi e colloqui. Ed ecco il punto: Kabobo parla (come non aveva fatto nei giorni successivi al suo arresto), racconta, prova a descrivere motivi e moventi. Voci in testa e solitudine devastante. Dice: “Queste voci mi dicevano che la popolazione africana, la parte del Nord, anche loro stavano uccidendo le persone a picconi quindi mi sono sentito anche io di fare la stessa cosa e che io sono il creatore”. Ragionano i periti: “Stando alla sua narrazione (Kabobo, ndr) appare come una persona in perenne fuga dalla miseria (…) fermandosi dove trova lavoro e fuggendo quando la disponibilità economica necessaria alla sopravvivenza viene messa in discussione”. Cuce insieme particolari della sua vita. Che certo non giustificano, ma, finalmente, aiutano a capire quel fantasma che ha devastato per sempre la vita di tre famiglie.
Parte da quella data falsa: primo gennaio 1982. “Per poter fare i documenti”. Dice e torna alla sua infanzia in Ghana. Dove? “In un piccolo villaggio di Wa che si chiama Lora”. Padre, madre, due fratelli. Contadini. Poveri ma sani. Poi aggiunge: “Papà è morto, ma mia mamma è ancora viva”. Kabobo va a scuola. Quinta elementare, ma forse anche meno. Il non aver studiato resta , per lui, una voragine. Non legge né scrive. “Giocavo a pallone – racconta – ma non tifavo nessuna squadra”. E poi ancora la scuola. Kabobo studia per seguire l’esempio di suo fratello Kuako che “voleva fare l’insegnante”. A dieci anni, però, basta studi. Il fratello muore e morirà anche il secondo, Santu, che, rivela, non era sano di mente e tentò di uccidere la madre con il machete.
Adam si sposta in un città più grande del Ghana. Fa il contadino. Raccoglie pomodori. Non si sposa, ma incontra una donna. E ci fa una figlia che oggi dovrebbe avere circa cinque anni. Conosce la ragazza perché è una delle lavoratrici che porta l’acqua dal fiume per bagnare i campi. Vive nella casa del padrone. Lui lavora e l’altro gli dà un tetto. Così spiega “il baratto”.
Kabobo ha vent’anni. Lavora e ha una bambina. Coltiva, per poco tempo, la religione musulmana “perché i ragazzi con i quali mi accompagnavo erano musulmani”. I genitori, invece, erano atei. Poi la fuga dal Ghana. Via dai genitori dalla ragazza messa incinta. Arriva in Nigeria. Qui ci sta tre anni e s’ingegna a fare il gelataio. “Ma la mia meta era la Libia”. Ci vivrà tre anni facendo il muratore. Quindi il mare e il barcone per Lampedusa. L’Italia.
L’approdo a Lampedusa fissa finalmente un punto cronologico nella ricostruzione della vita di Kabobo. Arrivato al centro di accoglienza, Adam viene trasferito a Bari. E’ l’agosto 2011. Qui, racconta, si trova in mezzo agli scontri fuori dal Centro di accoglienza per richiedenti asilo (Cara). Fermato viene trasferito nel carcere di Lecce. La cartella clinica messa agli atti è decisiva per comprendere la deriva che porterà Adam nel maggio 2013 a uccidere per le vie di Niguarda. Il 24 gennaio 2012 la visita psichiatrica registra “disturbi della sensopercezione”. Prescritte: 20 gocce di Haldol medicinale antidelirante per eccellenza. Il 31 gennaio 2012 le gocce salgono a 30. Il 5 febbraio 2012 Kabobo tenta di impiccarsi. Il 7 febbraio si provoca, volontariamente, un trauma cranico. Nel carcere di Lecce distrugge tre televisori. “Iniziavo a pensare come una persona che sta impazzando”. E ancora: “Mi davano le medicine ma non andavo a posto”. Ecco, poi, le voci. “Quando guardavo la tv qualcosa nella mia mente mi diceva che queste persone sono quelli che mi provocavano le cose che avevo nella testa”. A Lecce, Adam, non fa amicizia. Quando mangia inizia a sentire l’odore delle feci “oppure quello dei cadaveri”. Ma le voci lo tranquillizzano: “Tutto va bene – spiega – perché l’odore dei morti è come quello dei vivi”. Scarcerato, dalla Puglia va in Svizzera. Adam arriva a Berna nel maggio 2012. Qui incontra un medico. Deve curarsi il dolore alla gamba. Dopodiché viene messo in un centro per rifugiati. Continua a sentire l’odore dei cadaveri.
Nel settembre 2012 arriva a Milano e qui resterà fino al massacro del 13 maggio 2013. In tasca, ricordiamolo, ha un una richiesta di asilo che, per la legge italiana, rende impossibile l’espulsione. “Non conoscevo la città – racconta Kabobo – e quindi dove mi trovavo chiedevo le elemosina”. Dorme dove capita, cerca i vestiti nei cassettoni del comune. E quando ha qualche euro in tasca si compra del pane. Immaginare la vita di Kabobo all’ombra del Duomo non è difficile. Basta incrociare uno dei tanti ragazzi africani che stanno fuori dai negozi, sui marciapiedi, ai semafori domandando denaro. Adam, è il suo racconto, prova a cercare un contatto. Racconta: “Cercavo di chiedere alle persone che incontravo, nessuno mi dava retta e ognuno andava per la sua strada”. In sintesi: “Tutti giravano la faccia”.
Il suo stato confusionale prosegue. Sale in treno per andare a Foggia. Gira ore ma si ritrova sempre a Milano. Le voci continuano a farsi sentire. In certi casi lo rassicurano. Gli dicono di camminare. Che troverà da mangiare e da dormire. E Kabobo cammina, ma non mangia per giorni. La deriva è sempre più grave: “Le voci mi dicevano che io sono il creatore del mondo (….) che (…) venendo qui in Italia avrei sofferto di più”. Riduce tutto a questo. E’ la sua spiegazione. Quei tre morti abbattuti, massacrati, derubati (Adam gli porterà via soldi e cellulari) sono l’ultimo atto di una “lotta per la sopravvivenza” di una persona che “non ha le capacità di organizzarsi i bisogni primari”. Niguarda, dunque, diventa l’Africa. I marciapiedi quei terreni del Ghana di cui Adam dice di “essere il creatore”. E visto che lui “è il creatore” e visto “che avevo freddo, non dormivo e non mangiavo, tutti questi problemi mi hanno portato a fare quello che ho fatto”.
Cronaca
Adam Kabobo, dal Ghana al massacro di Niguarda “in lotta per la sopravvivenza”
La perizia psichiatrica depositata oggi considera il giovane ghanese capace di partecipare al processo che lo vede imputato per aver ucciso tre persone e aggredite altre quattro. Nei colloqui con gli psichiatri il racconto di un'odissea devastante
Sette persone aggredite e tre morti. A sprangate prima, a picconate poi. Un’ora e mezza di terrore per le strade del quartiere milanese di Niguarda. Era il 11 maggio 2013. Dalle 04 e 30 alle 06 e 30. Alba di sangue ricostruirono i carabinieri. Primo morto: Ermanno Masini “aggredito con violenza inaudita”. Secondo morto: Alessandro Carolè ucciso “infierendo con sconvolgente brutalità”. Terzo morto: Daniele Carella “la cui uccisione è ripresa da un filmato di videosorveglianza che ne testimonia con tragica efficacia l’efferatezza”. In manette un solo killer: Adam Kabobo, anno di nascita 1982, data, si saprà, inventata. Ghanese di origine, poi migrante e alla fine giustiziere. Pazzia, si disse. Infermo di mente. Incapace, anche, di partecipare al processo. Nulla di tutto questo perché la perizia depositata in questi giorni dal gip di Milano Andrea Ghinetti dice altro: Kabobo “è capace di partecipare coscientemente al processo”. A provarlo quasi duecento pagine di analisi e colloqui. Ed ecco il punto: Kabobo parla (come non aveva fatto nei giorni successivi al suo arresto), racconta, prova a descrivere motivi e moventi. Voci in testa e solitudine devastante. Dice: “Queste voci mi dicevano che la popolazione africana, la parte del Nord, anche loro stavano uccidendo le persone a picconi quindi mi sono sentito anche io di fare la stessa cosa e che io sono il creatore”. Ragionano i periti: “Stando alla sua narrazione (Kabobo, ndr) appare come una persona in perenne fuga dalla miseria (…) fermandosi dove trova lavoro e fuggendo quando la disponibilità economica necessaria alla sopravvivenza viene messa in discussione”. Cuce insieme particolari della sua vita. Che certo non giustificano, ma, finalmente, aiutano a capire quel fantasma che ha devastato per sempre la vita di tre famiglie.
Parte da quella data falsa: primo gennaio 1982. “Per poter fare i documenti”. Dice e torna alla sua infanzia in Ghana. Dove? “In un piccolo villaggio di Wa che si chiama Lora”. Padre, madre, due fratelli. Contadini. Poveri ma sani. Poi aggiunge: “Papà è morto, ma mia mamma è ancora viva”. Kabobo va a scuola. Quinta elementare, ma forse anche meno. Il non aver studiato resta , per lui, una voragine. Non legge né scrive. “Giocavo a pallone – racconta – ma non tifavo nessuna squadra”. E poi ancora la scuola. Kabobo studia per seguire l’esempio di suo fratello Kuako che “voleva fare l’insegnante”. A dieci anni, però, basta studi. Il fratello muore e morirà anche il secondo, Santu, che, rivela, non era sano di mente e tentò di uccidere la madre con il machete.
Adam si sposta in un città più grande del Ghana. Fa il contadino. Raccoglie pomodori. Non si sposa, ma incontra una donna. E ci fa una figlia che oggi dovrebbe avere circa cinque anni. Conosce la ragazza perché è una delle lavoratrici che porta l’acqua dal fiume per bagnare i campi. Vive nella casa del padrone. Lui lavora e l’altro gli dà un tetto. Così spiega “il baratto”.
Kabobo ha vent’anni. Lavora e ha una bambina. Coltiva, per poco tempo, la religione musulmana “perché i ragazzi con i quali mi accompagnavo erano musulmani”. I genitori, invece, erano atei. Poi la fuga dal Ghana. Via dai genitori dalla ragazza messa incinta. Arriva in Nigeria. Qui ci sta tre anni e s’ingegna a fare il gelataio. “Ma la mia meta era la Libia”. Ci vivrà tre anni facendo il muratore. Quindi il mare e il barcone per Lampedusa. L’Italia.
L’approdo a Lampedusa fissa finalmente un punto cronologico nella ricostruzione della vita di Kabobo. Arrivato al centro di accoglienza, Adam viene trasferito a Bari. E’ l’agosto 2011. Qui, racconta, si trova in mezzo agli scontri fuori dal Centro di accoglienza per richiedenti asilo (Cara). Fermato viene trasferito nel carcere di Lecce. La cartella clinica messa agli atti è decisiva per comprendere la deriva che porterà Adam nel maggio 2013 a uccidere per le vie di Niguarda. Il 24 gennaio 2012 la visita psichiatrica registra “disturbi della sensopercezione”. Prescritte: 20 gocce di Haldol medicinale antidelirante per eccellenza. Il 31 gennaio 2012 le gocce salgono a 30. Il 5 febbraio 2012 Kabobo tenta di impiccarsi. Il 7 febbraio si provoca, volontariamente, un trauma cranico. Nel carcere di Lecce distrugge tre televisori. “Iniziavo a pensare come una persona che sta impazzando”. E ancora: “Mi davano le medicine ma non andavo a posto”. Ecco, poi, le voci. “Quando guardavo la tv qualcosa nella mia mente mi diceva che queste persone sono quelli che mi provocavano le cose che avevo nella testa”. A Lecce, Adam, non fa amicizia. Quando mangia inizia a sentire l’odore delle feci “oppure quello dei cadaveri”. Ma le voci lo tranquillizzano: “Tutto va bene – spiega – perché l’odore dei morti è come quello dei vivi”. Scarcerato, dalla Puglia va in Svizzera. Adam arriva a Berna nel maggio 2012. Qui incontra un medico. Deve curarsi il dolore alla gamba. Dopodiché viene messo in un centro per rifugiati. Continua a sentire l’odore dei cadaveri.
Nel settembre 2012 arriva a Milano e qui resterà fino al massacro del 13 maggio 2013. In tasca, ricordiamolo, ha un una richiesta di asilo che, per la legge italiana, rende impossibile l’espulsione. “Non conoscevo la città – racconta Kabobo – e quindi dove mi trovavo chiedevo le elemosina”. Dorme dove capita, cerca i vestiti nei cassettoni del comune. E quando ha qualche euro in tasca si compra del pane. Immaginare la vita di Kabobo all’ombra del Duomo non è difficile. Basta incrociare uno dei tanti ragazzi africani che stanno fuori dai negozi, sui marciapiedi, ai semafori domandando denaro. Adam, è il suo racconto, prova a cercare un contatto. Racconta: “Cercavo di chiedere alle persone che incontravo, nessuno mi dava retta e ognuno andava per la sua strada”. In sintesi: “Tutti giravano la faccia”.
Il suo stato confusionale prosegue. Sale in treno per andare a Foggia. Gira ore ma si ritrova sempre a Milano. Le voci continuano a farsi sentire. In certi casi lo rassicurano. Gli dicono di camminare. Che troverà da mangiare e da dormire. E Kabobo cammina, ma non mangia per giorni. La deriva è sempre più grave: “Le voci mi dicevano che io sono il creatore del mondo (….) che (…) venendo qui in Italia avrei sofferto di più”. Riduce tutto a questo. E’ la sua spiegazione. Quei tre morti abbattuti, massacrati, derubati (Adam gli porterà via soldi e cellulari) sono l’ultimo atto di una “lotta per la sopravvivenza” di una persona che “non ha le capacità di organizzarsi i bisogni primari”. Niguarda, dunque, diventa l’Africa. I marciapiedi quei terreni del Ghana di cui Adam dice di “essere il creatore”. E visto che lui “è il creatore” e visto “che avevo freddo, non dormivo e non mangiavo, tutti questi problemi mi hanno portato a fare quello che ho fatto”.
MANI PULITE 25 ANNI DOPO
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Roma, 2 gen. (Adnkronos) - "È quello che abbiamo chiesto. Ma capire è una parola inutile. Io non capisco niente e chi ci capisce è bravo. Si chiede, si fa e si combatte per ottenere rispetto. Capire no, mi spiace. Magari, capire qualcosa mi piacerebbe". Lo dice Elisabetta Vernoni, madre di Cecilia Sala, dopo l'incontro con la premier Giorgia Meloni a palazzo Chigi ai cronisti che le chiedono se la giornalista potrà avere altre visite da parte dell'ambasciata.
Roma, 2 gen. (Adnkronos) - Nella telefonata di ieri "avrei preferito notizie più rassicuranti da parte sua e invece le domande che ho fatto... glielo ho chiesto io, non me lo stava dicendo, le ho chiesto se ha un cuscino pulito su cui appoggiare la testa e mi ha detto 'mamma, non ho un cuscino, né un materasso'". Lo dice Elisabetta Vernoni, madre di Cecilia Sala, dopo l'incontro con la premier Giorgia Meloni a palazzo Chigi.
Roma, 2 gen. (Adnkronos) - "No, dopo ieri nessun'altra telefonata". Lo dice Elisabetta Vernoni, madre di Cecilia Sala, ai cronisti dopo l'incontro a palazzo Chigi con la premier Giorgia Meloni. "Le telefonate non sono frequenti. E' stata la seconda dopo la prima in cui mi ha detto che era stata arrestata, poi c'è stato l'incontro con l'ambasciatrice, ieri è stato proprio un regalo inaspettato. Arrivano così inaspettate" le telefonate "quando vogliono loro. Quindi io sono lì solo ad aspettare".
Roma, 2 gen. (Adnkronos) - "Questo incontro mi ha fatto bene, mi ha aiutato, avevo bisogno di guardarsi negli occhi, anche tra mamme, su cose di questo genere...". Lo dice Elisabetta Vernoni, madre di Cecilia Sala, lasciando palazzo Chigi dopo l'incontro con la premier Giorgia Meloni.
Roma, 2 gen. (Adnkronos) - "Cerca di essere un soldato Cecilia, cerco di esserlo io. Però le condizioni carcerarie per una ragazza di 29 anni, che non ha compiuto nulla, devono essere quelle che non la possano segnare per tutta la vita". Lo dice Elisabetta Vernoni, madre di Cecilia Sala, dopo l'incontro con la premier Giorgia Meloni a palazzo Chigi.
"Poi se pensiamo a giorni o altro... io rispetto i tempi che mi diranno, ma le condizioni devono essere quelle di non segnare una ragazza che è solo un'eccellenza italiana, non lo sono solo il vino e i cotechini". Le hanno detto qualcosa sui tempi? "Qualche cosa - ha risposto -, ma cose molto generiche, su cui adesso certo attendo notizie più precise".
Roma, 2 gen. (Adnkronos) - "La prima cosa sono condizioni più dignitose di vita carceraria e poi decisioni importanti e di forza del nostro Paese per ragionare sul rientro in Italia, di cui io non piango, non frigno e non chiedo tempi, perché sono realtà molto particolari". Lo ha detto Elisabetta Vernoni, mamma di Cecilia Sala, dopo l'incontro a palazzo Chigi con la premier Giorgia Meloni.
Roma, 2 gen. (Adnkronos) - "Adesso, assolutamente, le condizioni carcerarie di mia figlia". Lo dice Elisabetta Vernoni, madre di Cecilia Sala, dopo l'incontro con la premier Giorgia Meloni a palazzo Chigi ai cronisti che le chiedono quali siano le sua maggiori preoccupazioni. "Lì non esistono le celle singole, esistono le celle di detenzione per i detenuti comuni e poi le celle di punizione, diciamo, e lei è in una di queste evidentemente: se uno dorme per terra, fa pensare che sia così...".