Quirino Principe è diventato protagonista, almeno nel nostro contesto nazionale, per una militanza intellettuale a favore della musica, del tutto speculare a quella da altri combattuta contro la musica, contro la sua presunta gratuità, futilità, inutilità. Da Sesto Empirico al pamphlet di Manlio Sgalambro, Contro la musica, del 1995, si è istituita, nella storia delle idee, una linea di pensiero antimusicale, contro la quale Principe ha dato avvio a un’autentica rivoluzione culturale, a partire dal lessico stesso. Sono state messe in discussione, in particolare, due aggettivazioni, musica ‘classica’ o ‘colta’ – Principe ha privilegiato l’aggettivo ‘forte’ – e quella di teatro ‘lirico’, del tutto fuorviante, da sostituire con quella più propria di ‘teatro d’opera’.
Voglio contribuire anch’io a questa rivoluzione cultural-linguistica, mettendo in discussione l’aggettivo ‘leggera’ contrapposto a quello di ‘classica’, ‘colta’ o ‘forte’, come la definisce Principe. Mi chiedo se non sia tutta la musica, al di là delle sue contrapposizioni, a essere attraversata dalla leggerezza.
In una delle opere capitali del pensiero novecentesco, La musica e l’ineffabile di Vladimir Jankélévitch, lo charme della musica, la sua particolarissima e presunta autoreferenzialità non è forse funzionale alla sua leggerezza? Scelgo come punto di riferimento un compositore come Satie, che rientra nella costellazione ideale dei musicisti prediletti dal filosofo francese d’origine russa. Un compositore tormentato, basti pensare al rapporto controverso stabilito con la fede religiosa. Erik Satie nato da padre ateo e madre protestante viene battezzato alla nascita con rito anglicano; dopo la morte della madre, all’età di sei anni, riceve il battesimo cattolico. Per un periodo, include tra i suoi interessi anche l’esoterismo e sul letto di morte confiderà a Jaques Maritain, guardando il crocifisso, di sperare solo in Dio e di voler cambiar vita dopo la guarigione.
Prima della morte che avverrà il I luglio 1925, Satie chiederà altre due volte di fare la Comunione. Questo atteggiamento poliedrico, che sfugge alle categorizzazioni nette, caratterizza anche la personalità artistica del compositore francese. Non è affatto casuale che l’oratorio, capolavoro di Satie, sia dedicato alla figura di Socrate, l’ironista per eccellenza, colui che problematizza le più diverse possibilità di scelta senza assumere posizioni viziate dal pregiudizio.
Questa ascendenza socratica viene spesso richiamata dai contemporanei di Satie, a partire da Cocteau a da Valentine Hugo. L’opera dedicata a Socrate composta in forma di oratorio può essere eseguita al pianoforte o da una piccola orchestra, mentre l’organico vocale presume l’uso di voci femminili per personaggi maschili al fine di creare un effetto di distanziamento ulteriore tra il pubblico e la narrazione. Non sono il personaggio centrale Socrate e tutti i mezzi utilizzati scelte, per così dire, orientate verso la leggerezza, ossia verso il culto autoreferenziale dell’apparenza contro la pomposità del sinfonismo germanico?
Ha senso, per chiudere questo discorso, parlare di leggerezza solo in rapporto a una musica di certa tipologia popolare? O piuttosto la leggerezza non connota tutta la l’autenticità della musica in quanto tale, il suo farsi, la sua dimensione tecnico-pratica? L’ineffabilità, che non ha nulla a che vedere con l’indicibilità, non è forse l’esperienza stessa della musica nel suo dispiegarsi? Non esiste una leggerezza, una gratuità fine a se stessa? Lo charme della musica, la sua particolarissima fascinazione risiede forse in questa presunta gratuità-inutilità?