Oggi all’Aja, riparte il processo a William Ruto, vicepresidente in carica del Kenya, alla sbarra insieme al presidente Uhuru Kenyatta per i fatti di sangue seguiti alle elezioni politiche del 2007. Udienza a porte chiuse, con la teste 536 che proseguirà la sua deposizione sull’assalto alla chiesa di Kibmaa, dove persero la vita 35 persone. Si ricomincia dopo una settimana di break alle udienze, che ha consentito al vicepremier di tornare in patria, per gestire l’emergenza legata all’attacco terroristico dello scorso 21 settembre al centro commerciale Westmall di Nairobi, dove hanno perso la vita 67 persone.
Un evento drammatico, letto da molti osservatori come un solido punto (politico) a favore della difesa dei vertici kenioti alla sbarra all’Aja. “Con la minaccia terroristica incombente, può il primo ministro trovare tempo per occuparsi del suo processo alla Corte Penale?” si domanda Moses Kuria, un collaboratore di Kenyatta, parlando con Reuters. E intanto il primo ministro incassa il consenso della nazione, per l’intervento delle forze di sicurezza che ha messo fine all’assedio del centro commerciale e lancia appelli all’unità contro il terrorismo. E raccoglie anche il sostegno dei leader del mondo. E a sorpresa anche quello della Corte Penale che in un comunicato a firma del Pubblico ministero Bensouda, esprime solidarietà ed offre collaborazione al governo keniota per assicurare alla giustizia i responsabili dell’attentato.
Una vicenda che complica il difficilissimo compito della Corte, stretta tra le procedure del caso più complesso ed importante della sua breve storia e le “ragioni” della politica. Uhuru Kenyatta e William Ruto, si stanno dimostrando, per il Cpi, ben più che due semplici imputati; nulla è stato lasciato da questi al caso, limitandosi a ostacolare il processo oppure costruendo sceneggiate mediatiche: hanno scelto invece la strategia, decidendo di giocare su diversi tavoli. Anzi, su tutti i tavoli a disposizione: dalle pressioni politiche esterne tramite l’Unione Africana che ha inviato ai primi di settembre una lettera alla Corte, chiedendo di archiviare il procedimento a quelle interne, con il voto del parlamento keniota per il ritiro del paese dalla Corte dell’Aja, fino al disgelo nelle relazioni con le potenze mondiali, tramite l’impegno in prima fila nella lotta al terrorismo, cruciale per l’Occidente, in una regione come l’Africa Orientale. Ma alle pressioni di tipo politico, si aggiungono i sospetti della Corte Penale che i leader kenioti stiano “giocando sporco”, cercando di vincere la partita privando l’accusa del vitale apporto dei testimoni.
La lunga lista di defezioni di questi ultimi e le voci insistenti di soldi (o minacce) in cambio del silenzio, hanno attivato le indagini degli investigatori dell’Aja, culminate nel mandato di cattura spiccato dal pm Bensouda contro il giornalista keniota Walter Barasa, ex cronista della testata People, di recente acquistata dalla società di famiglia del primo ministro, la Mediamax Network Ltd. Barasa ha negato di far parte di una rete di uomini vicini ai vertici governativi che secondo l’accusa della Corte Penale, avrebbe offerto fino a 12 mila euro ad alcuni testimoni del processo, affinché non testimoniassero. L’uomo rischia fino a 5 anni di carcere e questo procedimento è il primo che l’Aja istruisce, in violazione dell’Art. 70 dello Statuto di Roma.
Dopo essersi piegata per ben due settimane all’emergenza, con il mandato di cattura firmato dal giudice Tarfusser, la Corte lancia un chiaro messaggio a chi, nella Comunità Internazionale, non vedrebbe come sfavorevole un decreto di archiviazione per i vertici kenioti a processo. Ora il Kenya, deve arrestare e trasferire con urgenza all’Aja il giornalista Barasa. O almeno cosi le impone lo Statuto di Roma. Lo farà?