Siamo ad una passo da una nuova emergenza umanitaria. Una tendopoli senz’acqua e servizi igienici adeguati, senza luce, senza gestione, abbandonata al proprio destino. A ridosso dell’area portuale di Gioia Tauro, tra i comuni di Rosarno e San Ferdinando in provincia di Reggio Calabria, sorge una delle più grandi tendopoli italiane dove, anno dopo anno, si rifugiano migliaia di migranti nordafricani in cerca di lavoro.
La stagione per la raccolta delle arance è iniziata, durerà fino alla prossima primavera e, secondo un copione già visto e ampiamente conosciuto, l’intera Piana di Gioia Tauro rischia ancora una volta di esplodere, dopo la rivolta di Rosarno del gennaio 2010. Lo scorso anno sono stati oltre duemila i lavoratori stagionali africani arrivati nella Piana a fronte di una tendopoli (già pressoché satura) che ne può ospitare 430.
Un’altra tendopoli, adiacente alla prima, è stata smantellata, il terreno circostante è diventato una vera e propria discarica, ma nessuno, tra un’emergenza e l’altra, si è curato di tutelare l’area e di bonificarla. Mancano i fondi necessari per le prime fasi degli arrivi come quelli per ripulire, attrezzare e gestire le aree. I Comuni hanno le casse vuote e non possono superare lo stallo nel quale si trovano senza l’ausilio degli organismi sovraordinati, in primis Regione Calabria e Governo.
“Siamo al punto in cui eravamo lo scorso anno”, afferma don Pino De Masi, sacerdote da sempre in prima linea, vicario della Diocesi di Oppido–Palmi e referente di Libera per la Calabria: “Abbiamo bisogno di interventi immediati per riconoscere dignità a queste persone. Non ci sono solo le centinaia di persone che si riesce ad accogliere nelle tendopoli, ci sono mille ‘invisibili’ che dormono sotto i ponti, in luoghi malsani, alla disperata ricerca di un rifugio”. Ma, accanto alle necessità di oggi, per superare la cronica emergenza occorre comprendere – ragiona don Pino – come le tendopoli non risolvano i problemi.
“Sono necessarie misure di più ampio respiro da parte delle Istituzioni non solo italiane ma anche europee. I migranti che arrivano a Rosarno, a San Ferdinando, nella Piana di Gioia Tauro sono spesso diversi dai profughi che fuggono dalla guerre. Una nuova legislazione sulla cooperazione con i Paesi d’origine agevolerebbe i percorsi di inserimento lavorativo e di inserimento sociale ed eviterebbe il pericolo che una moltitudine di persone finisca in mano alla violenza organizzata o sia bersaglio di soprusi di ogni tipo”. I problemi di Rosarno e della Piana di Gioia Tauro non sono un mistero per nessuno, da almeno vent’anni.
La cronistoria che si fa vergogna, inchioda ciascuno alle proprie responsabilità. Nel marzo del 2005 “Medici senza frontiere” denuncia che il “55 per cento dei lavoratori stagionali di Rosarno non ha acqua corrente nel luogo in cui vive, il 54 per cento non ha luce, quasi il 60 per cento non ha servizi igienici e il 91 per cento non ha riscaldamento”. L’inferno si conferma negli anni successivi. Nel 2008, è la prima volta che gli Africani scendono in strada dopo il ferimento di due Aivoriani “puniti” per aver detto no al pizzo.
Ma è nel 2010 che la rivolta finisce in primo piano su tutti i media del mondo. I due “neri” centrati da colpi di fucile ad aria compressa, i cinque investiti da un’auto e i due i linciati, scatenano la reazione della comunità di colore al grido di “Avoid shooting blacks”.
“Arance insanguinate - Dossier Rosarno”, scritto da stopndrangheta.it e da daSud, pubblicato nel 2011, sembra ripercorrere la cronaca di questi giorni. Oltre a don Pino De Masi e a Libera, sono tanti i volontari. Rosarno è la città di Peppino Valarioti, giovane sindacalista ucciso dalla ‘ndrangheta nel 1980, di singoli individui e di associazioni che riscattano la coscienza civile dell’intero Paese: Mamma Africa, Peppino Lavorato, daSud, il Cenacolo di Maropati, Caritas, Kalafrica, Elisabetta Tripodi, tra le donne sindaco coraggio. Da soli però non ce la si fa. Nella Piana di Gioia Tauro, la partita dell’accoglienza è la partita dei diritti che rompe l’egemonia mafiosa.