Poche settimane fa un amico dei miei figli che vive al piano sotto il nostro ha lasciato l’Italia: piccolo emigrante al seguito dei suoi genitori, musicisti del Maggio Musicale fiorentino costretti a cercar lavoro nell’Europa del Nord. Il patrimonio culturale è lavoro: lavoro spesso precario, mal retribuito, poco dignitoso. Una generazione di schiavi del patrimonio vede negati, e sulla propria pelle, i valori di humanitas che quello stesso patrimonio proclama.

Una retorica d’accatto cerca di opporre l’articolo 9 all’articolo 1 della Costituzione: come se la violenza sul patrimonio fosse giustificata dalla creazione di posti di lavoro. Ma dalla violazione dei diritti non può nascere niente di buono: e quando si calpesta la tutela non si calpestano oggetti, si umilia la dignità dei cittadini. Distruggere la dignità è il miglior viatico per creare un tipo di lavoro su cui la Repubblica non può fondarsi, ma semmai rovinare. E questo è un delitto particolarmente stupido, perché il patrimonio culturale ha invece un disperato bisogno di professionalità altamente qualificate: potrebbe far vivere (e quanto felicemente!) migliaia di giovani italiani che oggi sono invece costretti a scegliere tra lasciare l’Italia, o accettare lavori lontanissimi dalla loro formazione.

Ogni anno le nostre università laureano e dottorano un numero impressionante di storici dell’arte e della letteratura, filosofi, archeologi, architetti, archivisti e bibliotecari: e lo stesso fanno i conservatori con i musicisti, le scuole specializzate e le accademie con i restauratori, i danzatori, gli scenografi, i giornalisti, i traduttori ecc. Tuttavia, come in un assurdo e corale supplizio di Tantalo, il patrimonio non riesce a incontrare coloro che lo potrebbero curare amorevolmente, e tutti costoro non riescono a lavorare nel patrimonio: e così distruggiamo intere generazioni, e al tempo stesso condanniamo a morte ciò che di più prezioso ha il nostro Paese.

La prima urgenza del governo dei Beni culturali è, dunque, un nuovo piano di assunzioni: non qualche ingresso propagandistico che possa tamponare le falle, ma la massiccia entrata di giovani assunti in base al merito, e a tempo indeterminato. E non umiliandoli per anni agli ultimi posti di una interminabile gavetta, ma collocandoli subito in posizioni apicali. Ma quanto ci vuole per mantenere il patrimonio culturale italiano (arte, biblioteche, archivi, opera lirica, teatro, cinema…) senza che vada in rovina, chiuda o debba vivere di interessate elemosine? Basterebbe meno di un quinto della spesa militare.

Dopo che, nel 2008, Sandro Bondi dimezzò il bilancio dei Beni culturali (allora attestato sui tre miliardi e mezzo l’anno, già insufficienti), i suoi successori Giancarlo Galan e Lorenzo Ornaghi hanno perso un altro mezzo miliardo: oggi siamo circa a un miliardo e mezzo (Ministero dell’Economia e delle Finanze, Nota integrativa per il triennio 2012-2014 per il Ministero per i Beni e le attività culturali). Le armi, invece, ci costano almeno ventisei miliardi (SIPRI, Trends in World Military Expenditure 2012) cui forse se ne aggiungeranno altri dodici per i bombardieri F-35 (così il ministro della Difesa Mario Mauro ha affermato alla Camera il 7 agosto 2013). Ventisei, o trentotto, contro uno e mezzo: sono queste le cifre del suicidio culturale italiano.

In Europa le cose stanno diversamente: la nostra spesa per la cultura equivale al 1,1 % del Pil, mentre la media europea è esattamente il doppio, 2,2 % (fonte Eurostat). Se raddoppiassimo torneremmo alla cifra pre-Bondi: e sarebbe già un successo. Se poi riuscissimo ad arrivare a 5 miliardi l’anno (la metà di quanto spende la Germania), avremmo un patrimonio mantenuto con lindore svizzero, e senza chiedere aiuto a nessuno speculatore privato. Certo, saremmo sopra la media europea: ma il nostro patrimonio non lo è?

Chi predica l’abbandono del progetto costituzionale sul patrimonio usa sempre e solo un unico argomento: non ci sono i soldi, e dunque è necessario privatizzare. È una menzogna, e una menzogna interessata. La mancanza di soldi non è un’alluvione o un terremoto, non è una catastrofe naturale: è una scelta politica. Una scelta regressiva, e irresponsabile: se nemmeno una delle prime potenze economiche al mondo ritiene di poter investire sul proprio patrimonio, cosa mai dovrebbero fare paesi come la Grecia, l’Egitto, l’Afghanistan o l’Iraq?

Nella storia dell’umanità la cultura è sempre stata il dividendo di un investimento economico: mai è accaduto il contrario. Anche oggi i musei americani, sempre citati a sproposito, non generano reddito, ma anzi sono mantenuti con denaro pubblico o consumano le rendite delle loro ricche donazioni. Però generano civilizzazione, umanità, coesione sociale. Una nazione più colta potrà diventare anche più ricca, e la più importante risposta alla sciocca affermazione per cui «la cultura non si mangia» è: «non di solo pane vive l’uomo».

La nostra giusta ossessione di rimanere una nazione ricca non può cancellare una domanda di fondo: essere ricchi è ancora un mezzo, o è diventato l’unico fine? Siamo abituati a calcolare con grande attenzione il ritorno di ogni nostro investimento: ebbene, oggi dobbiamo decidere se rimanere umani e civili è un ritorno sufficiente.

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