La fa facile Marco Travaglio parlando di carcere e di sovraffollamento. Dice “che se in una camera per 2 ne metti 3 è grave ma non è insopportabile“, e lo dice per supportare il ragionamento per cui il sovraffollamento delle carceri è un problema di spazio e non di numero complessivo di detenuti. Non so quali siano i parametri di Travaglio. Se sono quelli che usa la questura per stabilire il numero dei manifestanti in una piazza (4 ogni metro quadrato) ha ragione. Se, al contrario, sono quelli di una dignitosa convivenza per 22 ore al giorno, avrebbe dovuto aggiungere che le celle, in moltissimi carceri, misurano circa sei metri quadri (3 x 2) e che la somma di queste due dimensioni (spazio più tempo) causa quel fenomeno che, appunto, viene chiamato pena aggiuntiva da sovraffollamento (e che l’Europa chiama tortura, unitamente alla vergognosa e paranoica pratica della carcerazione preventiva).
Il succo del discorso, diventato mantra per reazionari e progressisti, è che bisogna costruire nuove carceri e depenalizzare le leggi sull’immigrazione e sulla droga. Sulla seconda questione mi limito a segnalare che c’era una magnifica occasione, offerta dai soliti radicali, che il mondo mediatico e quello politico si sono ben guardati dall’appoggiare; vuoi perché Pannella è amico di Berlusconi, vuoi perché i radicali sono troppo libertari per le nostre intelligenze, vuoi perché è troppo faticoso andare in un comune a firmare un quesito quando il mirabolante web ti permette, dal tinello di casa, di sottoscrivere appelli per tutte le tasche e per tutte le necessità e sentirti in pace con la tua coscienza.
Sul primo punto, invece, questo mantra sfiora la semplificazione eccessiva. Perché anche ammesso che vi siano soldi per l’edilizia penitenziaria non vi sono per gli organici (come denunciano i sindacati di polizia penitenziaria) in carenza, da anni, di agenti: aggiungerei che aprire un carcere senza chi vigila è un buon viatico per appaltare alla criminalità la gestione dello stesso. Il carcere rappresenta, stante la potestà di punire di uno Stato e il dettato costituzionale teso alla rieducazione di chi delinque, una forma di corto circuito tra il fine che si prefigge e lo strumento (carcere) che dovrebbe conseguirlo. Perché è noto che il carcere peggiora e non migliora.
Mi sfugge la ratio per cui, se queste sono le risultanze, ci si ostini a seguire la strada sbagliata invece di prendere atto che una fetta consistente dei nostri galeotti potrebbe essere ugualmente punito con forme altre di pena. I lavori socialmente utili, gli affidamenti in prova, le pene pecuniarie, gli arresti domiciliari. Certo, bisognerebbe rivoluzionare il corpo di polizia penitenziaria. Formarli perché diventino agenti territoriali. Bisognerebbe coinvolgere quel terzo settore che già oggi si occupa di detenuti nel supporto agli uffici per le esecuzioni penali esterne. Bisognerebbe, per una volta, affrontare un tema ponendosi in una logica di riforma e non di “aggiustatina” di ciò che esiste. Bisognerebbe sporcarsi le mani attuando, in epoca di conformismi, l’unica vera rivoluzione da fare: assumersi la responsabilità di una scelta. E sappiamo, che a eccezione di qualche stupido idealista, di rivoluzionari in Italia non ce ne sono tra i cittadini. Figuriamoci tra le forze politiche.