Si è aperto oggi ad Addis Abeba il summit straordinario dell’Unione Africana dedicato a rivedere i rapporti con la Corte penale internazionale (Cpi).
È ormai da tempo che stiamo assistendo ad un drammatico cambiamento nelle relazioni tra i paesi del continente africano e la Corte dell’Aia. L’iniziale entusiasmo di molti paesi africani si è trasformato in crescente frustrazione, critiche serrate e, in tempi più recenti, ad una aperta battaglia contro l’operato della Corte. Ora l’Unione Africana minaccia addirittura dimissioni di massa, una prospettiva davvero tragica per la Cpi: basti pensare che dei 54 Stati dell’Unione Africana ben 34 hanno ratificato lo Statuto di Roma, il che rappresenta oltre un quarto del totale degli Stati membri della Corte (122 attualmente).
Ma quale è il motivo di tanto malcontento?
Detto brevemente, come le parole del ministro degli esteri etiope che ha aperto il summit di oggi: la Cpi sarebbe divenuta uno “strumento politico”.
Non a caso è il Kenya a guidare la campagna contro la Corte: due processi riguardanti la leadership politica keniota si trovano al momento in fase di dibattimento all’Aia. Il primo vede imputato l’attuale presidente Uhuru Kenyatta; il secondo, il suo vice William Ruto. Entrambi sono accusati di crimini contro l’umanità per avere giocato un ruolo decisivo nelle gravissime violenze post-elettorali avvenute in Kenya del 2007-2008 (omicidi, stupri e persecuzioni). I processi si celebrano all’Aia, sebbene il Kenya avesse fatto istanza per il trasferimento degli stessi sul proprio territorio (ufficialmente per facilitare la presenza degli imputati) e stanno avanzando a rilento e tra mille difficoltà. In particolare l’accusa si sta trovando a fronteggiare una vera e propria emergenza riguardo ai testimoni, molti dei quali si sono ritirati dopo essere stati pesantemente minacciati nel loro paese. La Procuratrice della Corte, Fatou Bensouda, lo scorso 11 marzo ha annunciato di avere deciso di chiudere il procedimento nei confronti del co-imputato del presidente Kenyatta, Francis Kirimi Muthauara, per sopravvenuta mancanza di prove, poiché i pochi testimoni sui quali si basava la tesi accusatoria, essendo minacciati, se non addirittura morti, non sono più in grado di testimoniare.
Il Kenya sta ovviamente facendo di tutto per bloccare i processi all’Aia, ma non è solo questo caso specifico a rendere i rapporti tra Stati africani e Corte così tesi.
È da tempo che i paesi africani, e non solo, lamentano un’eccessiva attenzione della Cpi nei confronti dell’Africa. Si parla ormai in modo ironico di Corte penale africana, la African Criminal Court, al posto della International Criminal Court.
Innegabilmente, a dieci anni dall’entrata in funzione della Corte, tutte e otto le situazioni oggetto d’indagine sono relative a paesi africani: Uganda, Repubblica Democratica del Congo, Repubblica Centrafricana, Darfur (Sudan), Kenya, Libia, Costa d’Avorio e Mali.
Tra queste si trova anche il procedimento nei confronti del Presidente sudanese Omar Al-Bashir, nei confronti del quale pende un mandato di arresto dal febbraio del 2007 per crimini contro l’umanità e genocidio ma che non è mai stato arrestato perché la Corte non è riuscita ad assicurarsi la cooperazione degli Stati a tal fine. Quanto alle indagini in Uganda, Joseph Kony e gli altri leader del Lord’s Resistance Army, una milizia che si contrappone alle forze ugandesi in una sanguinosa guerra che va avanti da oltre venticinque anni, sono ufficialmente ricercati dalla Corte da ben otto anni. Nei loro confronti pendono mandati di arresto emessi a luglio del 2005 e che si dubita verranno mai eseguiti. Il procedimento nei confronti di Saif Gheddafi, il figlio dell’ex rais libico nei cui confronti pende un mandato di arresto dal giugno del 2011, è anch’esso bloccato a causa del rifiuto delle autorità libiche di procedere alla sua consegna all’Aia. Il governo libico è impegnato in un duro braccio di ferro con la Corte volendo procedere direttamente al processo di Gheddafi e altri, mentre la Corte ritiene non vi siano sufficienti garanzie per un processo a livello domestico.
Il fatto è che se, da un lato, la Corte ha indubbiamente una componente politica nel suo operato, specie a livello di selezione dei casi (e purtroppo si è mostrata fino ad oggi forte coi deboli e debole coi forti), gli Stati africani stessi hanno talvolta fatto un uso politico della Corte.
È vero che in due casi si è trattato di risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu – Darfur e Libia (entrambe, come si è detto, impantanate) – ma occorre ricordare che la maggior parte dei procedimenti sotto indagine all’Aia sono stati iniziati proprio da una denuncia degli Stati interessati, che hanno in questo modo attivato la giurisdizione della Corte chiedendone l’intervento. Perché i paesi africani hanno fatto questo? In molti casi per tirarsi fuori da situazioni altrimenti ingestibili a livello interno (come nel caso del Congo o dell’Uganda) o a seguito di un cambio di regime (come nel caso della Costa d’Avorio).
Il loro atteggiamento oggi appare tuttavia ambiguo. Il genuino interesse degli Stati africani ad una composizione per via giudiziaria delle loro problematiche interne è quanto meno dubbio.
In attesa di vedere cosa uscirà dal summit in corso, varie campagne sono state lanciate sui social network per fare pressione sui rappresentanti degli Stati africani a non boicottare la Corte penale internazionale: tra queste spicca l’appello lanciato da Desmond Tutu tramite una petizione di Avaaz.
Quel che è certo è che la Cpi è in forte bisogno di nuova credibilità e di maggiore consenso. L’auspicio è che, comunque vada, l’iniziativa dell’Unione Africana, serva alla Corte per mettere in discussione alcune delle politiche che, in particolare l’organo dell’accusa, ha seguito in questi dieci anni passati e che si sono rivelate devastanti in termini di credibilità di questa importante istituzione.