Nuovi indizi dal cosiddetto documento "Bologna", trovato in tasca a Licio Gelli quando fu arrestato nel 1982, che cita un certo "cap" che aveva una "cicatrice vicino all'orecchio sinistro". Solo pochi giorni fa i pm di Caltanissetta hanno indagato il presunto "faccia da mostro" che sarebbe stato la cerniera tra apparati dello Stato, mafia e eversione nera
La figura di uno sfregiato potrebbe collegare due stagioni della storia italiana. Da un lato c’è quello le cui tracce emergono dalle carte sulla trattativa Stato-mafia, sull’attentato dell’Addaura del 1989 contro i giudici Giovanni Falcone e Carla Del Ponte e sull’omicidio dell’agente di polizia Nino Agostino, assassinato nello stesso anno insieme alla giovanissima moglie Ida Castelluccio. Dall’altro, invece, in alcuni documenti risalenti ai primissimi anni Ottanta ce n’è un altro, ancora senza nome, che ha a che fare con la P2 di Licio Gelli e con la movimentazione di 15 milioni di dollari che a partire dal luglio 1980, vigilia della strage alla stazione di Bologna, proseguì fino al febbraio successivo. Quell’uomo, lo “sfregiato del venerabile”, è “piccolo, accento meridionale, biondo, naso largo, cicatrice vicino orecchio sinistro” e viene indicato come un “cap”, presumibilmente un capitano, a cui un’impiegata della banca svizzera Ubs, filiale di Ginevra, doveva consegnare una tranche di quel denaro.
Queste informazioni emergono da una sorta di “allegato” al cosiddetto documento “Bologna”, di cui esistono altre due copie quasi identiche. È un foglio acquisito agli atti del processo per il crac del Banco Ambrosiano e mai trasmesso agli inquirenti del capoluogo emiliano. A tornarci adesso, a 33 anni di distanza dalla strage che uccise 85 persone e ne ferì altre 200, è l’Associazione tra i familiari delle vittime dell’eccidio alla stazione che, depositando in procura due memorie a un anno di distanza una dell’altra, ha chiesto che fossero riaperte le indagini per andare alla ricerca dei mandanti, dopo le condanne definitive degli estremisti di destra Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini e dei depistatori (Gelli stesso, Francesco Pazienza e due ufficiali del Sismi, Giuseppe Belmonte e Pietro Musumeci).
Il documento Bologna, ad avviso dell’associazione delle vittime, potrebbe costituire un passaggio per andare alla ricerca di chi ha voluto e ordinato la strage. Un passaggio che passa per il denaro usato per finanziare il massacro e di cui, finora, non s’è trovata traccia in sede giudiziaria. Ma è anche un passaggio che, se l’ipotesi dei familiari delle vittime fosse corretta, condurrebbe su base documentale ad alcuni dei vertici dei ministeri dell’Interno e della Difesa. Perché, dunque, quel documento di Gelli – e i 2 suoi cloni, emersi durante la detenzione del capo della P2 nel carcere svizzero di Champ Dollon e da cui era scomparsa l’intestazione Bologna – potrebbero rivestire tanta importanza?
Intanto il foglio “Bologna”, nella sua versione dattiloscritta (le altre sono manoscritte) e con l’intestazione della città (da qui il nome del documento), è stato trovato addosso a Gelli quando fu arrestato a Ginevra il 13 settembre 1982. Interpellato sui suoi contenuti, il “Venerabile” ha affermato di non conservarne memoria. Dal punto di vista degli inquirenti dei tempi, i movimenti finanziari annotati su quel documento avrebbero costituito un tentativo di corruzione di alcuni ufficiali della guardia di finanza perché fosse restituito il passaporto a Roberto Calvi, il presidente del Banco Ambrosiano condannato nel 1981 per reati valutari e trovato senza vita a Londra meno di tre mesi prima dell’arresto di Gelli, il 18 giugno 1982. Tuttavia per quel tentativo di corruzione gli imputati furono assolti e l’associazione delle vittime ha tentato di trovare interpretazioni alternative.
I primi movimenti in uscita registrati sul conto svizzero vanno collocati tra il 20 e il 30 luglio 1980. Criptiche le causali: “Dif. Mi.”, “Dif. Roma”, “Difes. Roma”, “Relaz. Zaff.” (dove “Zaff.” sta per Zafferano) e “Tedeschi Artic”. Criptiche al punto che lo stesso Gelli aveva dichiarato che “si tratta di sigle in codice, difficili da ricordare”. Ma intanto è possibile escludere che si tratti di spese per difese processuali, dato che i versamenti terminano un mese prima la scoperta degli elenchi della P2. A questo proposito, invece, si è pensato ad apparati militari da ricercare tra i Nuclei di difesa dello Stato, l’articolazione lombarda del Noto Servizio (o Anello, che stava in via Statuto) e la divisione Pastrengo dei carabinieri.
E qui si innesta un’altra delle chiavi per tentare di decifrare gli ulteriori codici contenuti nei documenti contabili di Gelli. In quest’ottica, infatti, il termine “Zafferano” non si richiama ai colori d’istituto della guardia di finanza, ma potrebbe riferirsi al capo dell’Ufficio Affari Riservati del Viminale, Federico Umberto D’Amato. Il quale, da fine gastronomo, aveva in più sedi decantato le doti della spezia (si veda per esempio il libro Menu e dossier del 1984). Ma soprattutto – in base a un rapporto del 1987 su documenti sequestrati a Castiglion Fibocchi e acquisito agli atti dell’Ambrosiano – si dà conto di un bonifico partito dal conto corrente svizzero di Umberto Ortolani, mente finanziaria della P2, a beneficio di varie persone, tra cui tale “FD”, in ipotesi Federico D’Amato, contrassegnato anche qui con la sigla “Zaf”.
Ecco a questo punto che discende una possibile decifrazione dell’ultima causale, “Tedeschi Artic”, che potrebbe identificarsi nel giornalista missino Mario Tedeschi, già direttore del settimanale Il Borghese, i cui rapporti con Federico Umberto D’Amato sono suffragati dall’archivio riservato del capo dell’ufficio Rei del Sid da cui dipendeva Gladio, Renzo Rocca, suicida nel 1968. Inoltre il fatto che di ambienti militari si parli discende da un’ulteriore annotazione riportata sul documento Bologna e sulle sue versioni successive. È il riferimento a un certo “Pollaio Alloia” e di nuovo passa attraverso a ufficiali vicini a Gladio: il generale dell’esercito Giuseppe Aloja, capo di Stato maggiore dell’esercito e uno degli animatori del convegno del 1965 dell’Istituto Pollio (il “pollaio”) dove si fece il punto sulla guerra non ortodossa in funzione anticomunista.
A valle di tutto questo ragionamento torna infine il “cap” sfregiato che va in Svizzera a ritirare una parte del denaro di Gelli. Potrebbe essere lo stesso di cui da anni si parla chiamandolo “faccia da mostro” o il “bruciato”? Di conferme non ce ne sono, ma nei giorni scorsi la procura di Caltanissetta ha indagato uno dei personaggi individuati come tale, Giovanni Aiello, vicino agli ambienti di destra e ritenuto per la strage di Capaci cerniera tra apparati dello Stato, mafia ed eversione neofascista. Nel frattempo si va alla ricerca della segretaria Antonella, che si ipotizza addestrata in Sardegna in una base Gladio. Su Aiello ci sono alcune descrizioni che sembrano richiamarsi l’una con l’altra e che a propria volta richiamano anche lo sconosciuto capitano di Gelli. C’è quella del padre dell’agente Nino Agostino, Vincenzo, che parla di “un uomo con i capelli biondi” con il volto sfigurato e ce n’è un’altra, del pentito Gaspare Spatuzza, che quando ricostruisce l’omicidio del giudice Paolo Borsellino, afferma: “Mentre veniva imbottita di esplosivo la Fiat 126 nel garage tra noi c’era uno elegante, biondino, mai visto prima”.