A quindici anni dalla loro istituzione, i Centri di Identificazione ed Espulsione si sono rivelati inumani e inefficaci. Lo spiega Caterina Mazza, ricercatrice presso l’Università di Torino e autrice del libro “La prigione degli stranieri” (ediesse edizioni), che propone di “cercare delle alternative alla politica che fa della detenzione amministrativa il dispositivo principale, o meglio esclusivo, per ridurre le presenze irregolari sul territorio nazionale”.
Dottoressa Mazza, quanti sono i CIE in Italia e quante le strutture in Europa dove vengono trattenute le persone sprovviste di un regolare titolo di soggiorno?
In Italia sono presenti 13 CIE per un totale di 1.901 posti. Oggi alcuni sono temporaneamente chiusi (come la struttura di Crotone che, in seguito alle rivolte dei trattenuti verificatesi a metà agosto scorso dopo la morte di un migrante, è stata semidistrutta; oppure come il CIE di Bologna le cui condizioni igienico-sanitarie sono state giudicate dall’ASL come inaccettabili). Altri CIE invece (Torino) hanno solo alcune aree considerate inagibili a causa di ribellioni da parte dei trattenuti. In Europa le strutture sono circa 200. Secondo uno studio effettuato dall’associazione Migreurop, i Centri nei diversi paesi UE sono addirittura 420. Tale numero contiene non solo le strutture formalmente preposte alla detenzione amministrativa, ma anche tutti i luoghi in cui di fatto gli stranieri vengono privati della libertà personale (quindi anche stazioni di polizia, carceri, zone aeroportuali…).
Chi gestisce i CIE e secondo quali criteri?
La gestione è di competenza delle Prefetture che, però, da subito (dall’istituzione dei Centri nel 1998) ne hanno affidato l’amministrazione a enti esterni. Questi, che generalmente sono associazioni umanitarie, ong e consorzi sociali, si aggiudicano la gestione di un CIE partecipando a una gara d’appalto bandita dalla Prefettura territoriale. Sono state fissate delle linee guida che stabiliscono le prestazioni che devono essere erogate dall’ente. Queste si suddividono in tre tipologie: assistenza generica (comprendente la mediazione linguistica e culturale, il sostegno psico-sociale, l’informazione sulla normativa italiana in materia di immigrazione, l’intrattenimento, la distribuzione dei pasti e dei kit con i prodotti per l’igiene personale e il vestiario); gestione amministrativa; assistenza sanitaria. Tali indicazioni, tuttavia, sono troppo generali e poco vincolanti. Questo impedisce che i servizi interni siano effettivamente erogati e nello stesso modo in tutti i Centri. Un ulteriore problema è che l’unico organo incaricato di valutare l’adeguatezza dell’ente sono le singole Prefetture che però si trovano in una situazione di conflitto di interessi in quanto sono ad un tempo: il soggetto che sceglie l’ente gestore, una delle due controparti della convenzione stipulata con l’organizzazione amministratrice del CIE e l’unica autorità predisposta a controllare la situazione all’interno delle strutture.
Chi sono i cosiddetti immigrati irregolari?
Gli immigrati irregolari sono i cittadini di Paesi Terzi presenti sul territorio italiano senza un regolare permesso di soggiorno. Vi sono coloro che sono entrati illegalmente nel Paese; altri che hanno varcato i confini nazionali illegalmente utilizzando documenti falsi; altri ancora che, seppur entrati regolarmente, permangono sul territorio di uno Stato anche quando è scaduto il visto o il permesso di soggiorno (essi vengono definiti overstayers).
Tutte queste tipologie di persone, per il fatto di essere in una condizione giuridica di irregolarità (e non per aver assunto un comportamento penalmente illecito, non per aver commesso un reato), secondo la legislazione italiana (art. 10-bis del Testo Unito sull’immigrazione secondo le modifiche apportate dalla legge n. 94 del 2009), sono perseguibili per il reato di immigrazione “clandestina”. Reato discusso, anche in sede parlamentare. Giovedì 10 ottobre, com’è noto, in Commissione Giustizia del Senato è stato espresso voto favorevole, da parte di PD, Sel, Scelta Civica e Gal, (mettendo in minoranza il Pdl), all’emendamento presentato da M5S relativo all’abrogazione del l’articolo 10-bis del TU. Questo è un primo significativo passo verso l’eliminazione di un reato sulla cui legittimità costituzionale gravano pesanti dubbi.
A quale procedura è sottoposto secondo la legislazione italiana l’immigrato sprovvisto di regolare permesso di soggiorno?
La condizione giuridica di irregolarità, indipendentemente dalle ragioni che l’hanno determinata, comporta l’espulsione dal Paese. La legislazione italiana prevede l’espulsione amministrativa di competenza del Prefetto ed eseguita dal Questore. In particolare l’articolo 13 co. 2 esplicita che il Prefetto disponga l’espulsione amministrativa caso per caso, tenendo quindi conto delle specificità delle singole situazioni. Tuttavia, le disposizioni per legge e la casistica elencata nella testo normativo che porta il Prefetto a disporre l’espulsione amministrativa da eseguirsi con immediato accompagnamento alla frontiera per mezzo di forza pubblica sono così ampie e generiche da far sì che questo tipo di rimpatrio sia ordinario, sia la modalità disposta con maggiore frequenza.
Occorre ricordare che l’espulsione coattiva prevede anche la possibilità che il migrante venga trattenuto in un CIE. Quando questo tipo di espulsione non può essere eseguita nell’immediato per la presenza di ostacoli oggettivi (quali, straniero necessita di assistenza medica; l’identità e la nazionalità dello straniero devono essere accertate; mancano di mezzi per acquisire i documenti di viaggio; non sono disponibili mezzi di trasporto idonei o manca il personale per effettuare l’allontanamento), lo straniero può venire trattenuto. Oltre all’espulsione amministrativa la legge italiana in materia prevede anche altre tipologie di allontanamento quali l’espulsione a titolo di misura di sicurezza e l’espulsione a titolo di sanzione sostitutiva o alternativa alla detenzione.
Quali sono le condizioni di vita all’interno dei CIE, quali i diritti della persona trattenuta?
Le condizioni di vivibilità interne sono particolarmente critiche e con il passare del tempo si stanno aggravando. Uno dei principali problemi è la situazione di promiscuità, che vedono costrette a convivere diverse tipologie di persone con bisogni differenti (come ragazzi poco più che maggiorenni, richiedenti asilo respinti; ex-detenuti e anche soggetti vulnerabili non sempre legittimamente trattenuti) che necessiterebbero percorsi di presa in carico individuali. Questo è fonte di grande stress nei CIE. Un secondo problema è dettato dal fatto che i servizi (come assistenza legale, di sostegno psicologico, di mediazione culturale) non vengono quasi mai erogati, quindi i trattenuti sono come abbandonati a loro stessi senza avere piena coscienza del motivo per cui si trovano nei CIE e fino a quando durerà la detenzione amministrativa. Un’altra questione è legata al fatto che gli edifici sono inadeguati come luoghi per trattenere degli essere umani ai quali, per il fatto di non aver commesso alcun reato, dovrebbe essere garantita la libertà di movimento all’interno delle strutture . Sono quasi tutti edifici di recupero (ex-caserme, ex centri geriatrici) o costruiti come fossero vere carceri. Inoltre, le condizioni igienico-sanitarie sono spesso inaccettabili. Questo è dovuto in larga misura al fatto che l’offerta economicamente più vantaggiosa è il fattore determinate per la scelta degli enti gestori. Si è arrivati a cifre ridicole come 28 € al giorno a persona, che non permettono di rispettare gli standard di base.
Per quanto tempo può essere trattenuta una persona all’interno dei CIE?
La legge italiana, secondo le modifiche apportate al TU con la legge n. 129 del 2011, prevede che il tempo di trattenimento possa protrarsi fino a 18 mesi. L’estensione del limite di tempo del trattenimento si è verificata nel tempo. Si pensi che la cosiddetta legge “Turco-Napolitano” aveva fissato un periodo di venti giorni, prorogabile per altri dieci. Nel 2002 la legge “Bossi-Fini” ha esteso tale periodo a trenta giorni prorogabili per altri trenta. Con il provvedimento legislativo n. 94 del 2009, la tempistica è stata ulteriormente modificata portando il termine massimo del trattenimento fino a 180 giorni (da suddividersi in tre tranche di 60 giorni ciascuna che si attivano su richiesta del questore e necessitano la convalida del giudice di pace). Di fatto, gli stranieri in attesa di espulsione rimangono nei CIE in media tra i 45/50 giorni.
Quante persone ogni anno transitano per i CIE in Italia?
Secondo i dati della Polizia di Stato e trasmessi nell’ultimo rapporto sui Centri redatto dell’associazione MEDU (Medici per i Diritti Umani), dal 2008 al 2012 sono transitati nei CIE in media 8.800 migranti all’anno.
A fronte di un numero di immigrati senza titolo di soggiorno superiore all’effettiva capienza dei CIE, chi in concreto subisce la detenzione amministrativa e secondo quali criteri?
C’è una disparità tra il numero dei migranti che secondo la legge devono essere trattenuti e quello di chi di fatto viene tradotto in un CIE. Questo dipende principalmente dal numero di posti, la capienza delle strutture ha un limite numerico superato il quale i trattenimenti non possono essere eseguiti. E’ difficile sapere con esattezza i criteri usati dalle questure per decidere chi debba entrare in un CIE e chi no. Tuttavia è possibile, in base alle testimonianze di professionisti che hanno diretta conoscenza del fenomeno, individuare alcuni criteri di massima.
Generalmente se non ci sono posti liberi, il questore ordina l’allontanamento del migrante da eseguirsi in autonomia entro sette giorni; se, invece, vi sono posti disponibili, la questura sceglie discrezionalmente in base a valutazioni sulle caratteristiche del singolo straniero in relazione al criterio della pericolosità sociale. Un ulteriore elemento selettivo è di tipo manageriale per cui vengono scelti gli stranieri da trattenere in base al grado di probabilità di esecuzione del rimpatrio. Sostanzialmente le questure decidono in base a tre ordini di considerazioni: la disponibilità di posti (criterio organizzativo); la pericolosità sociale del migrante (criterio di gestione della sicurezza); l’effettiva opportunità di eseguire l’allontanamento (criterio manageriale).
Il trattenimento all’interno dei CIE è davvero funzionale al riconoscimento dell’immigrato e al successivo rimpatrio?
L’efficacia espulsiva dell’uso dei CIE è abbastanza ridotta. In media neanche il 50% dei trattenuti viene poi di fatto rimpatriato. (Questa è una percentuale in linea con gli altri paesi europei. La media europea varia da 40 a 60% dei rimpatri tra le persone rinchiuse nei Centri di detenzione amministrativa). Se si rivisita la percentuale italiana dei rimpatri mettendola in relazione al numero delle persone irregolari che si stima siano presenti in Italia, si arriva a un efficacia espulsiva dell’1,2%.
La normativa italiana in tema di immigrazione irregolare è in linea con quella europea?
La normativa italiana recepisce solo in parte la direttiva europea rimpatri. Per esempio, con le modifiche apportate alla legge nel 2011 è stata sì adottata, come stabilito in sede europea, la formula della valutazione caso per caso come elemento che permette l’adozione di decisioni di rimpatrio che siano adeguate alle singole situazioni, tuttavia senza comportare alcun cambiamento nella prassi. Infatti tale formula caso per caso nel Testo Unico non viene specificata, e rimane così priva di concreta attuazione, sia nell’adozione dei decreti espulsivi che nella verifica della loro legittimità.
La direttiva europea fissa alcuni principi (come di gradualità nell’adozione delle misure, di proporzionalità e di rispetto dei diritti fondamentali) che nella normativa italiana non vengono pienamente rispettati. Secondo la direttiva gli Stati dovrebbero privilegiare la partenza volontaria dei migranti e adottare misure sempre più restrittive, nel caso in cui il migrante non rispetti gli ordini di allontanamento, in modo graduale fino ad arrivare al trattenimento da usarsi solo come extrema ratio, solo quando è assolutamente necessario. Le legge italiana invece prevede, come si è detto, che l’espulsione coattiva e il conseguente potenziale trattenimento siano la via ordinaria e non eccezionale.
La normativa italiana è in linea con le garanzie previste dalla Costituzione?
Diciamo che i principi fondanti il nostro ordinamento politico e custoditi nel testo costituzionale non sono pienamente rispettati dalla normativa italiana. Pensiamo ancora al reato di immigrazione “clandestina” o anche alla possibilità di venire trattenuti in un CIE solo per il fatto di non avere i documenti in regola, eventualità che in molti casi non dipende dal volere del migrante (in Italia basta perdere il lavoro che automaticamente si perse anche il permesso di soggiorno, diventando irregolari), e non per aver commesso un crimine.
In particolare la detenzione amministrativa comprime un diritto fondamentale (la libertà personale), pertanto dovrebbe essere regolata in base all’articolo 13 della Costituzione secondo cui la restrizione della libertà personale può essere ammessa solo “per atto motivato dall’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge”. Deve quindi essere un giudice a stabilire la suddetta restrizione sostenendo con prove e argomentazioni la propria decisione. Questa ultima deve inoltre essere adottata, secondo la costituzione, rispettando i principi di eccezionalità (la misura deve essere davvero necessaria e proporzionata) e di tassatività (cioè la decisione non deve essere discrezionale). Per quanto riguarda la detenzione amministrativa viene meno invece un effettivo controllo giurisdizionale.
Esistono soluzioni alternative ai CIE?
Attualmente i CIE versano in condizioni talmente gravi e inumane che, come sono oggi, è insopportabile pensare che rimangano aperti.
La consapevolezza della scarsa efficacia a fini espulsivi del loro ricorso, inoltre, porta a cercare delle alternative, spinge a riformulare le politiche adottate per contrastare la l’immigrazione irregolare. A mio avviso sarebbe opportuno cercare delle alternative alla politica che fa della detenzione amministrativa il dispositivo principale, o meglio esclusivo, per ridurre le presenze irregolari sul territorio nazionale. Credo che sarebbe auspicabile ridurre drasticamente l’uso dei Centri ai casi estremamente necessari (come casi di pericolosità sociale) e, ad un tempo, umanizzare la realtà interna e le condizioni di vivibilità delle strutture.