L’accordo è vicino, ma non è certo di ottenere i voti necessari per passare al Congresso USA. Si può sintetizzare così l’ultima fase di convulse trattative per arrivare a un’intesa che allontani il pericolo default, previsto dal segretario al tesoro Jack Lew a partire da giovedì prossimo, e riapra le agenzie del governo federale chiuse per mancanza di finanziamenti. Mentre democratici e repubblicani continuano a trattare, Barack Obama ha parlato ancora una volta e i suoi toni non sono stati per nulla concilianti nei confronti degli avversari politici. Dalla Martha’s Table, una storica mensa per i più poveri di Washington, Obama ha detto che “ci sono progressi, vedremo quanto reali. Ma se i repubblicani non mettono da parte alcune loro preoccupazioni, abbiamo buone possibilità di arrivare al fallimento”.

La mediazione che sta avanzando al Senato, negoziata dal capogruppo democratico Harry Reid e da quello repubblicano Mitch McConnell – due politici che non si amano e che più volte nel passato sono arrivati a clamorosi scontri politici – prevede l’innalzamento del tetto del debito sino al 7 febbraio 2014, il finanziamento delle agenzie del governo fino al 15 gennaio e un accordo complessivo su tasse e spesa entro il prossimo 13 dicembre. Escluso dall’accordo il rinvio di una tassa sui dispositivi sanitari contenuta nella riforma sanitaria di Obama, che era stata chiesta dai senatori repubblicani per venire incontro ai settori più conservatori del partito, mentre dovrebbe essere inclusa un’altra richiesta repubblicana: e cioè che chi godrà di sovvenzioni statali nel settore sanitario possa subire una verifica delle proprie entrate.

Il pacchetto sembrava aver raccolto sufficienti voti in Senato, quando è arrivata la doccia fredda del no dei repubblicani della Camera. “Chiamiamo i nostri colleghi del Senato come il gruppo di chi si arrende”, ha spiegato Tim Huelskamp, deputato repubblicano del Kansas, aggiungendo che chiunque alla Camera voterà per il piano del Senato verrà considerato una sorta di “traditore” e non sarà sicuro di avere i voti necessari per essere ricandidato alle elezioni di midterm del 2014. Per far capire come la pensano i settori più radicali del partito c’è stata, domenica 13 ottobre, una manifestazione di gruppi vicini al Tea Party davanti al Congresso, guidati dal senatore Ted Cruz, il “portabandiera” della battaglia contro la sanità di Obama, e dall’onnipresente Sarah Palin. I manifestanti, alcuni dei quali issavano bandiere della Confederazione sudista, urlavano slogan come “non molliamo” e “chiudi il governo federale”.

La palla quindi, ancora una volta, passerà nelle prossime ore a John Boehner, lo speaker della Camera. Boehner si vedrà con ogni probabilità arrivare dal Senato un’intesa e dovrà decidere cosa fare. Se la porterà in aula per il voto, dovrebbe probabilmente arrivare a una maggioranza risicata – tutti i deputati democratici e una pattuglia assolutamente minoritaria di repubblicani – ma in questo modo scontenterà la gran parte dei suoi, ormai vinti alle posizioni più radicali e battagliere. Se invece Boehner dovesse decidere di non votare il piano del Senato, e continuare nella proposta di un innalzamento del debito sino al 22 novembre – giudicato “irricevibile” da Obama –, si prenderà la responsabilità di condurre al fallimento il governo USA e dovrà a quel punto vedersela con la rabbia della maggioranza dei suoi concittadini. Secondo un ultimo sondaggio di Washington Post/Abc, il 74% degli americani disapprova la condotta dei repubblicani al Congresso.

La battaglia sul default è quindi servita a dare visibilità politica alle ali più estreme del GOP – in queste ore proprio Ted Cruz è diventato una sorta di eroe dei vari gruppi del Tea Party che travolgono deputati e senatori con migliaia di mail e telefonate – ma ha messo in crisi elettorale e di identità politica l’insieme del partito. Oltre le schermaglie parlamentari, resta comunque poco chiaro cosa succederà nel caso l’accordo non venisse raggiunto. Il 17 ottobre è infatti indicato dal segretario al Tesoro Lew come il giorno in cui il governo federale esaurirà la capacità di indebitamento. A quel punto, per pagare i suoi debiti, il governo conterà solo ed esclusivamente sul flusso di denaro che entra quotidianamente nelle casse del Tesoro. Al momento non si sa quanto potrà durare la solvibilità del governo e soprattutto non si conoscono servizi e agenzie costretti a un radicale ridimensionamento delle loro funzioni. Ci potrebbero essere tagli consistenti per alcuni programmi gestiti dai singoli Stati, come il Medicaid e i buoni pasto per i più poveri. Un’altra possibile conseguenza è che il collasso dei mercati metta in pericolo i piani pensionistici statali. Proprio questa incertezza a livello locale è stata sottolineata ieri da John Nixon, budget director del Michigan, secondo cui “siamo al disordine totale. La verità è che non sappiamo quello che succederà e quindi non possiamo mettere a punto nessun piano di intervento straordinario”.

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