“In certe situazioni, fotografare è eticamente difficile, ma non farlo lo è ancora di più.”
Si apre in questi giorni, a Lodi, la quarta edizione del Festival della fotografia etica.
Una rassegna che, tra mostre, incontri con gli autori e presentazioni di libri, intende indagare e valorizzare un approccio sanamente e doverosamente etico verso le pratiche e gli utilizzi della fotografia.
Il tema, sempre molto caldo e dibattuto in varie occasioni, diviene fulcro e discriminante per scelte coerenti da parte degli organizzatori della manifestazione.
E ben vengano momenti di confronto e riflessione. Non voglio qui mettermi a ribadire una volta di più come l’atteggiamento del fotografo, ed in particolare del fotogiornalista, dovrebbe – sottolineo dovrebbe – essere intellettualmente onesto: non asettico, non oggettivo (l’oggettività in fotografie non esiste, si polverizza ad ogni cambio di focale, ad ogni spostamento della posizione, ad ogni inquadratura che giocoforza include ed esclude…), ma onesto. Meno etico è, per il fotografo, mettersi al servizio di una tesi, di un potere, di un padrone ed interpretarne i “desiderata visivi”. Qualcosa che puzza – insomma – di propaganda.
L’argomento è enorme, affrontato in libri, trattati, convegni e anche litigi.
Vi è poi un tutto il terreno scivoloso attorno alla questione su chi, cosa e quando è moralmente accettabile o addirittura doveroso fotografare in presenza di altrui dolore, di altrui tragedia, di altrui umiliazione. Possiamo parlarne per giorni o anni, per poi arrivare sempre a concludere che sono scelte inevitabilmente intime e istantanee: da soli con la propria coscienza e professionalità. Che devono esserci entrambe e contemporaneamente, guai a separarle: la prima deve “sentire”, ma necessita di quella consapevolezza che solo la seconda può dare.
Dunque proprio i fotografi che s’impegnano a mantenere questo patto non scritto (fatto con se stessi in primis e con i lettori di conseguenza) vengono proposti a Lodi, e di tutto questo si parla, con ampia e attenta presenza di pubblico.
Perché, ormai è chiaro, la fotografia in Italia vive uno stato di vera schizofrenia: mai stata così in basso per quanto riguarda la considerazione del suo ruolo nei media (con qualche meritoria eccezione), e mai stata così al centro dell’attenzione come fenomeno culturale, con mostre e festival presi d’assalto da un pubblico – in massima parte giovane – davvero interessato.
Quando però si voglia circumnavigare l’etica e le sue implicazioni nell’ambito della fotografia, la responsabilità e il ruolo del fotografo sono solo il primo anello di una catena, sebbene il più importante.
Fatto egli il suo “dovere” e consegnate le fotografie, queste hanno ulteriori vite, altre mani a toccarle, altri occhi a giudicarle, altre menti a selezionarle.
E allora la “catena etica” rischia di essere compromessa ad ogni passaggio.
Quell’atteggiamento moralmente integro dovrà appartenere anche al photo editor (colui che seleziona le foto in una redazione e può spostare, con le sue scelte, il senso di un intero servizio fotografico, arrivando perfino a fargli dire l’opposto di quanto l’autore voleva mostrare); gli stessi rapporti, spesso complicati, che il photo editor intrattiene col fotografo possono sancire una “frattura etica” laddove si realizzi una sorta di compromesso sulla direzione da seguire; e una visione aperta quanto etica dovrà appartenere al direttore di quella testata, che non dovrà troppo condizionare – dunque piegare e assoggettare – le scelte fotografiche. E prima di lui l’editore dovrà lasciare autonomia e spazio in tal senso.
Inoltre, mentre è possibile interrogarsi sull’eticità delle foto che vediamo, non ci è dato giudicare ciò che non vediamo: voglio dire che la questione etica riguarda non solo le scelte, ma anche le omissioni, le “non scelte”.
Insomma, quanta etica c’è nel rifiutare un reportage fotografico perché “scomodo” rispetto al mood imposto dagli inserzionisti pubblicitari? Quanta etica c’è nel preferire un fotografo meno capace solo perché più ricattabile in termini economici e lavorativi? Quanta etica c’è nel rinunciare a essere propositivi per adagiarsi sull’ovvio e sul già visto? Quanta etica c’è nel proporre immagini inutilmente violente per cercare un sensazionalismo gratuito? Quanta etica c’è – viceversa – nel censurare un’immagine disturbante ma necessaria come testimonianza ritenuta, però, poco funzionale rispetto alla cosiddetta “linea editoriale”? Quanta etica c’è, impaginando un giornale, nell’attribuzione della gerarchia tra le notizie e dunque anche tra le fotografie?
Con queste domande, tutte a valle dell’azione del “fotografo etico”, si potrebbe proseguire; ma se solo a una di esse la risposta è negativa, ecco vanificato il nobile intento primigenio dell’autore.
Viene in mente, per dare un senso alla questione, la frase del grande W. Eugene Smith, monumento del fotogiornalismo di sempre, autore di indimenticabili (e talvolta controversi) reportage per Life: “Abbiate la verità come pregiudizio”. Frase su cui ci sarebbe molto da dire…
Non è finita. Anche il lettore (o spettatore, se parliamo per esempio di una mostra) dovrà fare la sua parte. Dovrà tralasciare i suoi pregiudizi, i suoi “tifi”, le sue idiosincrasie, le sue superstizioni e cercare di risalire questo corso d’acqua fatto d’immagini che molte volontà, molti rischi, molti sforzi hanno portato a lui. Eticamente, si spera.