La sua è una storia di imprenditore-contro. Storia di grandissimo successo, di straordinaria personalità, ma «in direzione ostinata e contraria» sempre, altro che le canzoni di Fabrizio de André. Contro le banche, alle quali non ha mai chiesto un quattrino, al punto che il signor Vichi non conosce assegni e carte di credito, solo contanti. Contro i confindustriali, che non ha mai sopportato e dei quali ha cessato ben presto di far parte. Contro i politici, che odia con tutte le sue forze al punto da travestirsi da fascista (che non è!) pur di gridare il suo disgusto. Contro i sindacati, che sopratutto negli anni caldi, ovviamente non hanno reso la vita facile a un tipo così spigoloso. Perfino contro i parenti e i figli, che, come nel caso dei discendenti svedesi del fondatore di Ikea, hanno dovuto guadagnarsi la pagnotta da soli.
La Mivar era Carlo Vichi e Carlo Vichi era la Mivar. La Mivar era un’azienda con un’impronta inusuale di capitalismo italiano, come lo immaginava il suo fondatore: più povero, più semplice, ma con idee forti. I suoi televisori erano interamente prodotti ad Abbiategrasso, niente assemblaggio. Non erano tecnologicamente i più avanzati, non erano nemmeno i più belli, ma costavano meno, erano di ottima qualità, affidabili e per questo amatissimi dai consumatori. Vichi non ha mai speso una sola lira di pubblicità e con il marketing ha rapporti del tipo i gatti con l’acqua. Ciononostante alla fine degli anni Ottanta produceva quasi 400 mila televisori e nel 2000 arrivò a detenere quasi il 35% del mercato nazionale con oltre 350 miliardi di lire di fatturato. La sua cifra innovativa stava nel processo produttivo, assolutamente originale e redditizio.
Carlo Vichi non è un pazzo di successo (nonostante i rovesci, non c’è dubbio che il saldo contabile della sua vita sia ampiamente attivo, per sè e per i suoi successori). È solo un imprenditore che per imporsi, senza sottostare alle regole collusive del capitalismo italiano, per poter mettere in pratica le sue idee imprenditoriali (legittimamente), ha dovuto andare contro tutti, al punto che l’opposizione da episodica e tattica, è divenuta radicale e strategica, da abito si è trasformata in pelle, è assunta a mezzo per sopravvivere, per non soccombere, a deformazione innaturale e indotta dal distorsivo ambiente delle imprese italiane. Vichi era un puro. Un semplice che ha dovuto perdere rapidamente la sua purezza, la sua semplicità per non scomparire.
Ora è finita, quello che non ha distrutto l’Italia, l’ha distrutto il mercato globale, dove lui non poteva più resistere con i bassissimi costi di produzioni di coreani e cinesi. Ad Abbiategrasso la fabbrica chiuderà, ma di lui resterà molto. Di sicuro resterà il suo «mausoleo», la grande modernissima fabbrica per oltre 1000 operai, pensata negli anni ’90, completata nel 2000, pagata di tasca sua senza nemmeno un centesimo di mutuo e mai inaugurata. E che lui ha sempre tenuto in funzione, in ordine, come se dovesse iniziare la produzione ogni prossimo giorno, continuando a pagare centinaia di migliaia di euro di Imu e tasse varie.
Carlo Vichi vorrà morire nella sua fabbrica, al suo tavolo, in mezzo agli operai. Lui non ha mai avuto un ufficio da Ceo. È sempre stato il «padrone», ma in mezzo ai suoi operai; uno di loro, anche se di grado superiore. Vecchio e nuovo hanno cercato di fondersi in una battaglia che ha combattuto con onore, ma forse non ha vinto. Il peso delle scassate e corrotte consuetudini imprenditoriali di questo strano paese resteranno per sempre la cicatrice delle sue rughe intorno ai suoi occhi azzurri.