La settimana scorsa, su The Guardian online, è apparso un commento interessante a firma di David Madden, docente di Sociologia e Programmazione Urbana alla London School of Economics, sui tema “rigenerazione urbana” e ”gentrificazione”. La lunga analisi che mette a confronto il “declino” parallelo di Londra e New York mi ha fatto venire in mente le parole del sindaco di Roma, Ignazio Marino, pronunciate all’indomani della sua elezione: “Voglio una Roma come Londra. Immagino tante gru e tanti cantieri che fanno rigenerazione urbana nelle zone abbandonate della città”. Aldilà del nobile – e non metto indubbio- genuino intento di migliorare la qualità di vita delle famiglie romane, a suo tempo, non avevo potuto fare a meno di pensare “di quale Londra parla il sindaco?” E soprattutto: cosa intende per rigenerazione urbana?
Madden scrive: “[…] Rigenerazione urbana”, secondo i suoi fautori, vuol dire mettere fine alla povertà. Purtroppo, la realtà è che la povertà viene solo spostata altrove” e prosegue: “Ecco come si svolgono le discussioni sulla ‘gentrificazione’: si dice che i quartieri poveri avrebbero bisogno di ‘rivitalizzazione’ come se l’assenza di vita -opposto ad impoverimento e perdita di potere- fosse il vero problema. Esclusione viene “riclassificata” come “rigenerazione”. La missione liberale di “incrementare la diversità” è utilizzata ampiamente come scusa per allontanare i residenti originali dalle loro aree, in zone come Harlem e Brixton -aree celebri per la lunga storia di lotta politica e diversità culturale – al termine del processo di gentrificazione, si plaude alla vittoria sul “povertà” ignorando il fatto che il disagio è stato solo spostato altrove.
In maniera insidiosa, la narrativa della “rinascita urbana” – il racconto epico di elite illuminate che recuperano aree abbandonate al degrado – è costante nel pensiero urbanistico contemporaneo, pur trattandosi di teorie spesso intrise di “fascismo”. Le critiche più frequenti al processo di gentrificazione, tendono ad assere mosse in modo da confondere le acque; una delle più inutili e ripetitive posizioni è rappresentata dall’ossessione con la perdita di “carattere” dell’area, con il suo essere meno “cool” o peggio ancora con l’aver rinunciato alla propria natura di quartiere “ribelle”, lamentando la proliferazione di “caffetterie” o ristoranti vegani, come prova regina della gentrificazione di zone come Dalston a Londra e Williamsburg a New York. […]”
Io stesso, ahimé, appartengo, colpevolmente, alla seconda categoria, quella dei “nostalgici”, quella di coloro che verserebbero lacrime per ogni negozio indipendente che chiude le saracinesche rimpiazzato da un franchising (anche se l’indipendente in questione fosse una bettola, a due passi da piazza Dam, che cede il passo a Starbucks, ad un negozio di telefonia o a Zara..). Ma a Londra ho vissuto tra il 2004 ed il 2008 ed ho potuto cosi osservare da vicino “il caso” del quadrante est della città, un esempio abbastanza clamoroso di “rigenerazione urbana” come, credo, la immaginasse Ignazio Marino: da Shoreditch, a ridosso della City, spingendosi ad est fino a Stratford, quartiere olimpico, e poi a nord, verso Hackney e da qui a sud, verso Mile End e Commercial Road, il processo di “rigenerazione” (o meglio di gentrificazione) ha mutato radicalmente l’aspetto di quest’area, storicamente abitata da working class inglese e dagli anni ’70 da immigrati del sub-continente indiano, provenienti soprattutto da Bangladesh e Pakistan.
Oggi Shoreditch è uno dei quartieri più popolari della capitale britannica ma popolare nel senso di “celebre”, sede di una miriade di società del settore tecnologico, di start up e di brand della “creative industry”. Nota come “East London Tech City” è stata motivo di orgoglio per il primo ministro David Cameron che non ha esitato a definirla la “Silicon Valley” londinese. Ma il rovescio della medaglia di questa rivoluzione d’immagine sulla quale hanno investito colossi quali Cisco, Facebook, Google ed Intel è che il cambio di “destinazione d’uso” non ha significato un miglioramento nelle condizioni di vita dei locals. Non è stato, insomma, come si ama dire in nord Europa, un risultato “win-win”: l’arrivo dei colossi, dei capitali, del personale impiegatizio internazionale e della cultura aziendale ha cambiato volto a Shoreditch, aprendo il ghetto e “spostando” la complessa cultura di strada del sobborgo, fuori, lontano dalla vista.
Il copione è lo stesso in ogni metropoli: tutto comincia – ed è cominciato anche a Shoreditch – con l’arrivo di artisti “squattrinati” a rompere il ghiaccio, seguiti dai loro omologhi dell’industria, seguiti dagli studenti, seguiti dalle multinazionali. Certo sul piano dell’immagine è stato un capolavoro; come mi raccontava un amico dj che frequentava il quartiere negli anni ’90 “si veniva ad est solo perché i locali erano aperti fino a tardi. Ma si veniva a proprio rischio e pericolo..”. Spaccio e prostituzione in strada, homless e “junkies”, un complesso reticolo di culture ed etnie giustapposte ma anche una ricchezza storica ed antropologica unica. Poi è arrivato il “miracolo” dell’era Blair e la “rinascita” di Londra; una rinascita passata per gru, bulldozer e calcestruzzo come denunciava lo scrittore Iain Sinclair nel suo “London: City of Disappearances”.
Qualche anno fa, intervistai lo scrittore nella sua casa-bunker di Hackney; circondata da estates (case popolari) decadenti, la sua via, era un’“oasi nel deserto”: una schiera di maisonette vittoriane assediate da un sobborgo che ha ispirato le liriche di due generazioni di “rapper” ed “MC”. Nonostante il libro fosse di fiction, il messaggio era chiaro ed era d’allarme “(la) Londra (che conosciamo) sta sparendo”. Certo, la capitale inglese è una città da sempre “in movimento” ma il ritmo elevato di ‘cancellazione’ della sua storia, a partire dai primi anni del ventunesimo secolo, non ha precedenti. Colpa della mani sulla città dei “developers” (costruttori) inglesi che usando il pretesto della “rigenerazione” hanno cancellato un pezzo consistente della città e la sua complessa fauna metropolitana, spingendo i prezzi degli alloggi alle stelle, costringendo gente nata e cresciuta in quei quartieri (una volta) malfamati a riempire i cartoni e spostarsi altrove. E questo non vale solo per gli abitanti della “Bangla City” di Brick Lane e di Bethnal Green ma anche per i molti creativi (non aziendali) costretti a fuggire dalla “rigenerazione” che non fa certo prigionieri; ne sanno qualcosa i proprietari del “Foundry” un bar/spazio multiarte di Old Street molto frequentato che offriva drink a poco prezzo ed esponeva opere di sconosciuti (tra queste anche un graffito di Banksy). Nel 2010, il palazzo che lo ospitava, è venuto giù per far posto ad un hotel di lusso. L’ennesimo.
E’ questa la “rigenerazione urbana” che Ignazio Marino immagina per Roma?