Si chiude la crisi fiscale degli Stati Uniti, dopo giorni di tensione tra repubblicani e democratici. Il presidente Usa Barack Obama ha firmato la legge di bilancio che permette la riapertura dell’amministrazione federale ed eleva il tetto del debito. Un accordo sul filo del rasoio al Congresso che in extremis riesce ad allontanare lo scenario catastrofico del default e mettere fine allo ”shutdown”, la chiusura forzata dei servizi federali.
Tuttavia, ci sono molti vinti e pochi vincitori nella crisi che per 16 giorni ha tenuto chiuso parte del governo Usa e portato l’America sull’orlo della bancarotta. Ha perso sicuramente il partito repubblicano, prigioniero dei suoi deputati e senatori più radicali, che insieme a un manipolo di think-tank conservatori hanno cinicamente cercato – senza riuscirci – di usare il budget come leva per cancellare la sanità di Obama. Ma anche chi ha vinto – sostanzialmente Obama e i democratici – ha ottenuto la sua vittoria in un quadro di rovine molto poco esaltante: migliaia di dipendenti pubblici a casa senza stipendio (solo oggi sono tornati al lavoro), un costo economico per il Paese di diversi miliardi di dollari, l’immagine internazionale degli Stati Uniti seriamente danneggiata, la Washington politica sempre più arrabbiata e incapace di trovare una qualsiasi forma di accordo.
La misura votata dal Congresso nella notte ha ottenuto un’ampia maggioranza al Senato – 81 voti contro 18 – e una maggioranza più esigua alla Camera – 285 contro 144 -; qui, alla Camera, soltanto 87 repubblicani hanno votato sì insieme ai democratici, sottolineando ancora una volta l’insoddisfazione e la riottosità di gran parte del partito. La nuova legge finanzia le agenzie federali sino al 15 gennaio e innalza il tetto del debito sino al 7 febbraio. Un gruppo di democratici e repubblicani sarà incaricato di preparare un piano fiscale di più lungo periodo entro il 13 dicembre. Quasi nessuna delle richieste repubblicane è stata esaudita. Il Dipartimento del Tesoro avrà ancora in futuro l’autorità di mettere in atto misure di emergenza per evitare il default – come ha fatto anche in questa occasione – nonostante i repubblicani volessero limitare questo tipo di poteri.
La riforma sanitaria di Obama del 2010, l’obiettivo primario e fondamentale degli attacchi repubblicani, resta intatta. Nell’accordo c’è una modifica minima – e cioè poteri di verifica del reddito di chi chiede sussidi governativi per dotarsi di un’assicurazione sanitaria – ma per il resto i repubblicani non sono riusciti nemmeno a ottenere il rinvio di una tassa sui dispositivi sanitari, che era da tempo tra le loro richieste. L’accordo non contiene alcun intervento relativo al sequester, il taglio automatico di bilancio che si verificherà intorno a metà gennaio e che porterà la spesa annuale dagli attuali 986 miliardi a 967 miliardi di dollari, in gran parte attraverso una riduzione dei costi della Difesa. Anche qui, se vorranno evitare tagli così consistenti, democratici e repubblicani dovranno mettersi intorno a un tavolo e trattare.
Barack Obama ha firmato la nuova legge alle 12.30 di notte. In una dichiarazione subito dopo la firma ha spiegato che “dobbiamo smetterla di governare in uno stato di continua crisi” e ha fatto appello ai partiti per “far avanzare il Paese e lasciare queste ultime tre settimane dietro di noi”. Il presidente esce rafforzato dalla battaglia sul budget. “Oggi non ci sono vincitori”, ha spiegato Jay Carney, il portavoce della Casa Bianca, ma è indubbio che Obama abbia saputo trarre tutto il vantaggio possibile. Generalmente portato al compromesso, per carattere e visione politica, questa volta Obama non ha avuto tentennamenti. Spalleggiato dal capogruppo al Senato Harry Reid, che sin dall’inizio ha imposto la linea del “non trattare”, Obama ha capito che i repubblicani si imbarcavano in una battaglia senza speranza di vittoria (non c’erano infatti i numeri di Camera e Senato per rivedere l’Obamacare) ed è andato diritto per la sua strada.
Chi gli è stato vicino in queste settimane dice che l’esperienza del passato, soprattutto quella del fiscal cliff di fine 2012, ha fatto capire al presidente che non c’è concessione o compromesso che possa attenuare l’avversione repubblicana nei suoi confronti. Di qui, appunto, la scelta della linea dura. A questo punto Obama può con più tranquillità guardare al futuro, soprattutto a quella riforma dell’immigrazione che resta il prossimo passo. “Risolto lo shutdown, comincerò a chiedere al Congresso una nuova legge sull’immigrazione”, ha detto subito dopo il voto di stanotte. Come si diceva, i veri sconfitti di queste ore sono i repubblicani. “Abbiamo combattuto una buona battaglia – ha detto lo speaker John Boehner -, tranne che non abbiamo vinto”. La “buona battaglia” ha in realtà dato l’immagine di un partito rissoso, diviso tra moderati e radicali, che Boehner ha dimostrato di non tenere in nessun modo sotto controllo (per ben due volte, martedì, lo speaker è stato costretto ad annullare il voto perché privo dell’appoggio dei suoi).
La stragrande maggioranza degli americani, tra il 74 e il 76 per cento, non ha gradito il gioco di Boehner e compagni, che hanno utilizzato la discussione sul budget non per mettere a posto i conti del Paese ma per organizzare un assalto coordinato e potente contro l’“Affordable Care Act”, la nuova legge sanitaria. L’assalto è stato a lungo atteso e progettato. All’inizio del secondo mandato di Obama i rappresentanti dei gruppi conservatori – Heritage Action, Club for Growth, i Tea Party Patriots e gli Americans for Prosperity, guidati dall’ex-segretario alla giustizia Edwin Meese III – si sono incontrati a Washington per mettere a punto proprio la strategia di questi giorni: chiudere i rubinetti dei finanziamenti al governo come strumento di pressione per far fuori l’Obamacare.
Il tentativo non è riuscito e ora il partito è spaccato, con i moderati che recriminano e rinfacciano ai radicali una strategia suicida. “Sono state due settimane disastrose per il partito repubblicano”, dice il senatore Lindsay Graham. “Speriamo che si sia capito che non si può far chiudere il governo per abbattere una legge dello Stato che non ci piace”, gli fa eco un altro moderato, il senatore Richard Burr. Il messaggio è stato recepito? Non si direbbe, a giudicare da alcune dichiarazioni dei repubblicani più conservatori dopo il voto della notte. “Ci sarà un secondo round e inizierà tutto daccapo”, spiega John Fleming, deputato repubblicano della Louisiana. “Ora facciamo un bel respiro, riorganizziamoci e pensiamo a gennaio, quando lo scontro sul debito ricomincerà”, aggiunge il suo compagno Adam Kinzinger dell’Illinois. E Michael Needham, a capo della “Heritage Action”, ha spiegato che l’ “Affordable Care Act” verrà cancellato nel 2017 dal nuovo presidente repubblicano. Nonostante tutto quindi, nonostante sconfitta e rovine generali, la battaglia dei conservatori va avanti.