Eh sì, ne è passato di tempo da quando nelle strade e nelle piazze della società occidentale risuonava quella parola. Gridata con veemenza, con rabbia, con passione. Quando l’entusiasmo degli studenti aveva contagiato anche le ‘tute blu’ (obbedienti alle direttive del ‘Partito’) . E così scuole, fabbriche, uffici si ritrovarono investiti da un’ebbrezza…da una brezza tanto adatta a far sventolare le bandiere rossonere dell’anarchia. Ieri e oggi Tempi andati. Ci hanno pensato le ‘bombe di Stato’ e ‘il delirio dei lottarmatisti’ a soffocare quella spinta propulsiva, quel desiderio di cambiamento, quella voglia di voler vivere in ‘una società di liberi ed eguali’. Tempi sepolti.
La mutazione antropologica sviluppatasi negli ultimi trentacinque anni non sembra lasciare spazio al sogno. Tutto deve essere improntato alla brutta realtà che ci circonda. E non è una novità. Già nel primo numero del 1985 nell’editoriale di una rivista anarchica chiamata Volontà si poteva leggere: “… oggi l’idea, il concetto stesso di rivoluzione attraversa una crisi profonda. I segnali che la logica sociale emette non sono certo riconducibili a una valenza rivoluzionaria e perfino le giovani generazioni sembrano tutt’altro che interessate a proposte o tematiche rivoluzionarie”. Allora dobbiamo proprio rassegnarci a questo presente sempre più drammatico fatto di guerre, di sfruttamento sempre più brutale, di diseguaglianze sempre più vistose? Un presente che non ha neppure un’immagine di futuro? La risposta è scontata, ma come uscirne? Certo, gli esiti delle rivoluzioni che si sono susseguite nel corso di Settecento, Ottocento e Novecento non rendono desiderabile quell’evento.
E chi può negarlo? Il presente contiene il futuro? L’anarchico tedesco Gustav Landauer (1870-1919) riteneva che ‘l’anarchia non è cosa del futuro, ma del presente; non è fatta di rivendicazioni, ma di vita’. In questa ottica il cambiamento radicale non è affidato a un evento ‘magico’, ma nasce dalla quotidianità, da relazioni capaci di sottrarsi alla logica dominante. E allora si comprende come l’oggi contenga il domani. Qui però si apre un interrogativo inquietante: il presente in cui siamo immersi lascia spazi per il futuro? Anni fa comparvero sui muri di Milano innumerevoli piccoli manifesti con una sola frase: ‘il futuro non è più quello di una volta’. Frase geniale che illuminava con immediatezza la situazione in cui ci troviamo ancor più immersi oggi. Perché il presente vuole distruggere il desiderio del cambiamento.
Ma andiamo oltre: il futuro che sapremo costruire non è neppure più, non può né deve essere quello pensato da chi abitava il passato. Qui si apre (si spera) una sfida: trovare o ritrovare la capacità di immettere il futuro nelle cose che si fanno nel presente. Immergere la realtà nel ‘sogno’. Sogni nuovi per un sogno antico: essere padroni della propria vita. Vale a dire togliere la rivoluzione dalla dimensione-evento per immetterla nella dimensione quotidiana. I piccoli tanti gesti, i piccoli tanti comportamenti, i piccoli tanti fatti, le piccole tante realizzazioni che creano dimensione comunitaria. Tolta dalla sua visione eroica e taumaturgica la rivoluzione diviene, allora, ‘il piacere dell’utopia’.