Adesso tutto è lecito, di Mario Monti si può dire qualunque cosa, dopo le sue dimissioni da presidente di Scelta Civica, dopo che ha ripudiato il partito che aveva provato a fondare, dopo l’esilio volontario e forse senza ritorno nel gruppo misto del Senato, il Professore sembra aver certificato il suo declino. E Pier Ferdinando Casini, il leader dell’Udc che fin dall’inizio (con liste e gruppi autonomi alla Camera) ha boicottato l’avventura montiana in questa legislatura, si risente per “i toni rissosi” di Monti. Sono passati appena nove mesi da quando si prostrava – “Siamo onorati di stare in seconda fila dietro Monti” – davanti all’ex premier che stava salvando l’Udc dall’annichilimento elettorale (il simbolo ha preso l’ 1, 8 per cento).
Ora che Monti sembra proprio finito, anche i giornali si scatenano a sparare sul cadavere, certi che non potrà vendicarsi. Repubblica, dopo aver celebrato il loden del professore, i suoi trolley, i sobri viaggi in treno e i suoi miracoli, ieri affidava alla penna di Filippo Ceccarelli il compito di rievocare “patetici frammenti autobiografici” di uno “sventuratissimo tecnocrate”. Lo stesso Ceccarelli che un anno fa raccontava il Professore come un “signore compassato” che aveva nella calma “la sua arma micidiale” con cui domava i vecchi politici (ricordate l’Abc, Alfano, Bersani, Casini?).
Nell’orgia di montismo di fine 2011 la Stampa era arrivata a dedicare un intero articolo al “primo taglio del governo Monti, quello dei capelli”, con preziose indicazioni su come “il Professore si fa tagliare i capelli circa una volta al mese”. Il Corriere della Sera, che del Monti editorialista è stato megafono e del politico coscienza critica, ieri non dedicava neppure una riga di commento alla fine della sua avventura (lo spazio serviva anche a celebrare Enrico Letta da Barack Obama, scene che una volta avevano Monti come protagonista). Si è persa da tempo ogni traccia del montismo di Giuliano Ferrara, direttore del Foglio, che vinse ogni imbarazzo per cantare un rap rivolto a Silvio Berlusconi: “Ti prego, ti prego, ti prego Cavaliere / ti voglio bene / Sei stato grande / Sei stato tanto / Sei stato troppo / Ma tienimi da conto Monti”.
La stampa berlusconiana fu entusiasta per pochi momenti, ma intensi, come quando il settimanale Chi di Alfonso Signorini dedicò a Monti pagine e pagine per “la storia di un italiano”, evocativa variazione dell’opuscolo elettorale del Cavaliere “Una storia italiana”. Tutto dimenticato, a nessuno interessa più se Monti indossi il loden o un impermeabile, se si tagli i capelli o se la signora Elsa lo rimbrotti ancora. La volubilità della stampa è seconda solo a quella della politica. Monti non ha informato il capo dello Stato Giorgio Napolitano dell’addio a Scelta Civica (e forse alla maggioranza di governo, chissà), e dal Quirinale non è arrivato un fiato, nessun monito. Nulla. Certo, Napolitano non ha mai perdonato al Professore di aver reclamato la presidenza del Senato come un diritto (mentre era ancora a Palazzo Chigi per gli affari correnti, tra l’altro). Ma per lunghi mesi i due erano stati un tutt’uno, Napolitano-Monti, l’asse che aveva espulso Berlusconi dal governo e che salvava l’Italia.
Con Enrico Letta i rapporti sono sempre stati freddi: a Monti non è piaciuto come il suo successore si sia appropriato di tutti i risultati del governo tecnico. A fine giugno Letta si è vantato di aver strappato al Consiglio europeo il permesso di spingere il deficit al 2, 9 per cento (falso, l’aveva ottenuto Monti a marzo) e imposto la disoccupazione giovanile come tema dominante (falso, era già in agenda) grazie all’uscita dalla procedura d’infrazione per deficit eccessivo (basata sui conti 2012 curati da Monti, mentre Letta ha sforato il tetto del 3 per cento del deficit). Il Professore si è indispettito e ha iniziato a chiedere un “contratto di coalizione”, per avere il peso nella maggioranza che riteneva gli fosse dovuto.
Oggi lo deridono gli stessi che lo celebravano quando era potente, Letta e il suo governo lo ignorano, ma spendono le risorse frutto dei sacrifici che i tecnici imposero al Paese Non solo Letta lo ha ignorato, ma ha anche iniziato a spendersi i due tesoretti lasciati da Monti per le emergenze: la spesa per gli interessi sul debito, stimata in eccesso perché con lo spread non si sa mai, e il deficit del 2014 lasciato al 2, 3 per cento grazie a tagli e aggravi fiscali. Letta, con Saccomanni, prima usa le risorse che dovrebbero derivare dal calo dello spread da 250 a 100 in tre anni, cancellando l’assicurazione lasciata da Monti, poi finanzia il taglio delle tasse per i dipendenti cui teneva tanto usando spesa in deficit, cioè senza coperture. E il deficit 2014 sale da 2, 3 a 2, 5. Il professore della Bocconi ha deciso che era meglio l’opzione “exit” di quella “voice”, come dicono gli economisti, farsi da parte invece che protestare inascoltato.
Monti resta senatore a vita, può aspirare all’ennesimo mandato da presidente della Bocconi, poco altro. Nelle apparizioni televisive di questi mesi, scivolate dalle prime serate alle fasce mattutine, degradato da ospite unico a comprimario, Monti ha esternato il suo cruccio maggiore: nessuno ricorda quando l’Italia era vicina al baratro. Non tanto al default, quanto all’arrivo della troika, completa cessione di sovranità a Banca centrale europea, Fondo monetario e Unione europea. Le pressioni su Monti sono state fortissime, soprattutto a gennaio-febbraio 2012, ma lui ha scelto di non seguire Grecia, Portogallo e Irlanda e sfidare invece la Germania sullo “scudo anti-spread”, un dibattito in gran parte a colpi di propaganda, ma che nel Consiglio europeo di giugno 2012 ha favorito le condizioni per l’intervento della Bce con il programma Omt (acquisti illimitati di bond) che ha bloccato la disgregazione dell’euro. Monti non si capacita che tutto questo non sia stato capito, o subito dimenticato, oscurato dal cagnolino Empy che gli consegnò Daria Bignardi in diretta tv, dopo una birretta col Professore.
da Il Fatto Quotidiano, 19 ottobre 2013