Di immigrazione, clandestini, profughi e altre questioni se ne occupa tutti i giorni, perché di mestiere Paolo Borgna, fa il magistrato, procuratore aggiunto a Torino. Ma soprattutto ne ha scritto molto, per i giornali, sui libri. Borgna è forse la persona che sull’argomento, se ci fosse un governo con l’intenzione di affrontare il problema e non solo accantonarlo, dovrebbe avvalersi come consulente. Anche perché, visto che fa il magistrato e deve perseguirli, li vede negli occhi. Sa quelli che scappano da cosa scappano e quelli che arrivano per delinquere di quali delitti sopravvivono.“Sarebbe meglio, come primo passaggio”, spiega al Fatto Quotidiano, “fare molta chiarezza sull’argomento e iniziare a parlare di reato, certo, ma anche di burocrazia. Perché questo è uno dei principali problemi”.
Partiamo dal reato.
Sì, e partiamo con un principio che deve essere chiaro a tutti: l’articolo di legge che mette sullo stesso piano immigrati che arrivano per lavorare e quelli che sono delinquenti abituali è profondamente ingiusto.
Immigrati buoni e immigrati cattivi?
Non ho detto questo. Parlo di diverse motivazioni. Ci sono persone che arrivano dall’estero motivate nel trovare un lavoro, per quanto in questo periodo di crisi sia possibile. E l’irregolare onesto purtroppo non ce la fa.
Perché?
Anche se arriva e ha un lavoro per essere regolarizzato, occorre troppo tempo. Spesso, per non restare da clandestino, deve rientrare nel suo Paese di origine e aspettare la chiamata. Un processo non complicato, ma difficilmente ipotizzabile. La procedura è talmente lenta che, ammesso e non concesso che abbia i soldi per poter aspettare senza lavorare in nero o prendere un aereo e aspettare la chiamata, se ha un lavoro o lo aspetta, lo ha già perso in partenza.
E gli altri chi sono?
Sono le persone che arrivano e delinquono. E sono messi esattamente sullo stesso piano.
Ma la clandestinità deve continuare a essere un reato?
Dico che ci sono piani diversi. Poi per noi diventa complicatissimo perseguire i clandestini. Che una volta identificati vengono denunciati a piede libero e gli atti trasmessi al giudice di pace. La condanna che viene loro inflitta in genere è una pena pecuniaria di 2. 000 euro che non pagheranno mai, perché sono persone senza documenti e quei soldi non li hanno. Alla fine del processo sono passati almeno due anni, lo Stato ha speso molti più soldi di quanti ne dovrebbe incassare e che non incasserà mai. Ma, soprattutto, il problema non è stato risolto. Anzi. E parliamo di un processo che è molto particolare.
Perché particolare?
Quello al quale siamo davanti è un fenomeno di massa e i fenomeni di massa non si risolvono così, non si combattono con i processi.
Viene da chiedersi a cosa serva il processo…
A niente. È soltanto un segnale ideologico, solo un segnale ideologico che non risolve il problema, neanche lo scalfisce.
Esiste allo stato attuale una strada per limitare questo intoppo?
Sì, una strada ci sarebbe. Ed è quella che accennavo all’inizio: rendere snelle e veloci le procedure per chi viene in Italia per cercare lavoro e magari lo ha trovato; in modo da non costringerlo alla “irregolarità”. E concentrarsi invece sulle espulsioni (reali e non solo sulla carta) di coloro che commettono crimini seri.
Altro discorso sono i profughi.
Entriamo in un altro tipo di problematica, molto diversa. E che questa classe politica non ha la forza di combattere. L’Italia è debole a livello europeo. Gli accordi presi in passato con gli stati nord africani avevano come risultato di fare morire i profughi di sete nel deserto. Noi dobbiamo invece proporre, come Europa, una presenza nel nord Africa che gestisca i campi e presti soccorso, facendo venire in Europa e non solo in Italia coloro a cui ri riconosce il diritto di asilo.
All’inizio degli anni Novanta a Strasburgo si iniziò un iter che portasse a un accordo internazionale. Doveva essere l’Helsinki del Mediterraneo. Ma poi se ne dimenticarono. Oggi che si può fare? Una strada, ma non compete a me indicarla, sarebbe quella di organizzare campi profughi nei Paesi da dove i profughi partono. E deve essere una pretesa, non una proposta. Ma per far questo ci vuole una forte volontà politica che imponga all’Europa di intervenire assumendo il problema come problema europeo.