La Germania offre centomila euro ai cervelli accademici fuggiti all’estero per favorire il loro ritorno in patria. Uno strumento per contrastare la carenza di personale altamente qualificato di cui il Paese ha forte bisogno, che tuttavia sarà utile a riportare a casa un numero esiguo di docenti e ricercatori. E in Europa cosa fanno? Nei Paesi avanzati dell’Ue sanno che per crescere non devono soltanto far rientrare i loro highly skilled workers. Gli Stati che, al contrario, cercano di favorire solo il rientro dei talenti fuggiti sono quelli alle prese con la crisi (Belgio, Portogallo, Irlanda) o quelli più arretrati: Albania, Romania, Ungheria, Polonia. L’Italia fa parte di questo secondo gruppo: “Da noi si fanno solo provvedimenti spot – spiega Alessandro Rosina, docente di demografia alla Cattolica di Milano – mirati a far rientrare i talenti, senza poi offrire loro ambienti universitari o lavorativi adatti, progettualità, prospettive di carriera. Tanto che molti di quelli che tornano sono costretti ad andarsene di nuovo”.
GERMANIA – Berlino e i Paesi più avanzati lo sanno: il futuro non è il rientro, ma la circolazione dei cervelli. E la locomotiva d’Europa è meta dei migliori giovani talenti di tutto il mondo grazie a politiche che ne favoriscono l’ingresso. In Germania è già sistema: “Per attrarre lavoratori altamente qualificati il governo federale si impegna a fornire agli immigrati prospettive di lungo termine”, si legge nel rapporto Attracting Highly Qualified and Qualified Third-Country Nationals pubblicato a luglio dall’Ufficio Federale dell’Immigrazione (leggi il documento). Capitolo accademici: nato nel 2010, l’International Research Marketing Network ha lo scopo di attrarre i migliori giovani scienziati d’Europa. Nel 2012 sono stati oltre 600 le highly qualified person, tra ricercatori e professionisti di alto livello, entrati in Germania; nel 2011 erano stati 700: in Italia a 4 anni dalla nascita il programma Montalcini non è andato oltre i 55 ricercatori rientrati; da noi, inoltre, solo il 3% dei team universitari ha ricercatori stranieri. Dal 1° agosto 2012, poi, Berlino ha implementato la direttiva dell’Ue sugli Highly Qualified Workers, che favorisce l’ingresso dei laureati dai paesi terzi. E poiché l’economia non cresce solo grazie a laureati e accademici, il governo ha adottato la Blue Card creata dall’Ue, che richiama in patria lavoratori qualificati: nel 2012 sono stati 25.921 i permessi di lavoro rilasciati, tra il 53% e l’87% a favore di professionisti provenienti da paesi non Ue.
REGNO UNITO – Anche Londra punta più ad attirare i talenti internazionali che a far rientrare i suoi. A politiche di immigrazione (Tier One e Tier Two) che favoriscono l’ingresso dei lavoratori qualificati, si combina l’altissima qualità dell’offerta formativa e lavorativa: secondo il QS World University Rankings 2013/14, ben quattro atenei britannici figurano tra le prime 6 migliori università del pianeta. A ciò vanno aggiunte le politiche attuate. Due Prime Minister’s Initiatives (1999 e 2006) e un nuovo sistema di permessi di studio e lavoro a punti varato nel 2008 hanno mirato ad attrarre i migliori studenti dai paesi non Ue, facilitando le procedure per il visto al termine degli studi. Dal 2011 le regole si sono fatte più stringenti, ma i risultati sono arrivati: se nel 2008 1,1 milioni di laureati britannici di alto livello viveva all’estero, l’arrivo di oltre un milione di talenti stranieri ha progressivamente colmato il gap. I risultati non arrivano per caso: “Si stima che ben 62 milioni di sterline vengano investiti ogni anno per gli studenti stranieri – si legge nel rapporto Brain drain, brain exchange e brain circulation (leggi il documento). Il caso italiano nel contesto globale, pubblicato nel 2012 dall’istituto Aspen – contro i 254 milioni destinati ai local: un ragguardevole rapporto di 1 a 4″.
SVIZZERA – Confina con l’Italia, ma è un altro pianeta. Secondo uno studio dei Politecnici di Milano e Torino e del National Bureau of Economic Research, gli atenei elvetici ha la quota più alta al mondo di ricercatori stranieri: il 56,7%. Questo grazie agli investimenti: nel solo 2012 il Fondo Nazionale Svizzero per la ricerca scientifica “ha autorizzato oltre 3500 progetti di ricerca – si legge sul suo sito – per un ammontare di 755 milioni di franchi (613 milioni di euro, ndr)”. Su mandato della Confederazione “nel 2012 il Fns ha supportato 8750 ricercatrici e ricercatori, di cui oltre la metà dottorandi”. Non solo: per sostenere quelli più promettenti, il Fns finanzia anche 30-40 professori borsisti l’anno: il sussidio, oltre un milione di franchi per una cattedra-borsa di 4 anni, consente di riunire un team per avviare un progetto di ricerca. Al termine del quale l’85% dei prof ottiene un incarico accademico, nella maggior parte dei casi a tempo indeterminato.
POLONIA – Sull’altro lato della barricata e dell’Unione ci sono i paesi che, non riuscendo ad attrarre talenti dall’estero, tentano di far rientrare i propri. Sono quelli colpiti dalla crisi e quelli storicamente arretrati. E’ il caso della Polonia: solo tra il 2004, anno in cui il paese entrò nell’Ue, e il 2009 2 milioni di polacchi partirono alla volta di Regno Unito, Irlanda e Svezia. Nel 2007 l’allora premier Lech Kaczynski annunciò un piano di rientro fatto di aumenti salariali e agevolazioni per l’avviamento di nuove imprese. Nel 2008 il governo lanciò la campagna “Hai un piano di ritorno?” per favorire il rientro che ebbe scarso successo. Grazie alla lenta ma graduale ripresa dell’economia oggi si intravede una leggera inversione di tendenza, che però non basta: secondo l’Ufficio Centrale di Statistica nel 2011 gli expat erano 2,06 milioni, il 3% in più del 2010. Così dal 12 aprile 2012 anche Varsavia ha adottato la Blue Card per favorire l’ingresso di highly skilled migrants da paesi non Ue.
UNGHERIA – Budapest arriva addirittura a impedire ai suoi neolaureati di partire. Dal febbraio 2012 il premier Viktor Orban annunciò il taglio del 40% dei posti universitari sovvenzionati dallo Stato: da allora gli studenti che ne hanno diritto devono firmare un contratto in cui si impegnano a restare in Ungheria fino a dieci anni dopo la laurea. Intanto nel paese, allo stremo, la sanità pubblica crolla: secondo il ministero della Salute, tra il 2012 e i primi sei mesi del 2013 sono stati 1.471 i professionisti sanitari che hanno lasciato il paese per posti a tempo indeterminato all’estero, dove trovano salari più alti e migliori condizioni lavorative. A causa della scarsità di personale gli ospedali sono al collasso: i pazienti in lista per un intervento sono 60 mila. Ora il governo ha deciso di aumentare il salario di 95mila operatori del settore e ha annunciato una cooperazione con la Romania per ridurre la fuga dei cervelli in entrambi i paesi.
ALBANIA – A far rientrare i propri ci ha provato anche l’Albania. Le stime dicono che 1,4 milioni di albanesi emigrarono nei 20 anni successivi al crollo del regime comunista nel 1991. Tra questi anche il 45% degli insegnanti e migliaia di laureati. Nel 2006 il governo ha avviato un programma da un milione di euro per stimolarne il rientro, che prevedeva un bonus economico supplementare allo stipendio, agevolazioni sul mutuo e facilitazioni nel trovare un posto nella pubblica amministrazione. Secondo Erawatch, osservatorio della Commissione Ue sulle politiche di sviluppo nazionali e regionali, i risultati fino al 2011 sono stati discreti, ma chi è tornato non è sicuro di voler restare: in base all’ultimo report dell’European Movement in Albania, il 42% dei cervelli rientrati ha difficoltà a fare passi in avanti nella propria carriera, mentre il 36% non vede il proprio futuro in Albania nei prossimi cinque anni.
CROAZIA – Il rientro dei cervelli resta l’obiettivo, ma qualcuno comincia a parlare di circolazione. Secondo alcune stime, sono oltre 10mila i giovani diplomati che ogni anno lasciano la Croazia per cercare una nuova vita all’estero. Il 18 settembre il governo ha lanciato Newfelpro, programma della durata di 4 anni, finanziato con 7 milioni di euro, per promuovere l’ingresso di ricercatori stranieri e il ritorno dei cervelli fuggiti, “aumentare la mobilità estera dei ricercatori croati” e “sostenere uno sviluppo efficace del mercato del lavoro, collegando l’industria e la comunità scientifica”.
BELGIO – Di brain circulation si parla anche in Belgio, tra i paesi fiaccati dalla crisi. A maggio Jean-Marc Nollet, ministro della Ricerca della Fédération Wallonie-Bruxelles, ha annunciato per il 2014 il lancio di Brains back to Wallonia, programma di rientro dei talenti fuggiti che sarà affiancato dal complementare New brains to Wallonia, piano per attirare ricercatori universitari stranieri. Secondo il National Bureau of Economic Research, il paese ha visto emigrare il 21,7% dei suoi ricercatori, a fronte di una quota del 18,2% di cervelli internazionali arrivati nelle sue università. Un deficit del 3,5%, quando nei paesi vicini il bilancio è positivo: Francia +5,1%, Paesi Bassi +1,3%, Germania: +0,1%. Eppure il governo si è mosso e nel 2012 ha presentato due progetti per complessivi 13,5 milioni che finanzieranno 132 ricercatori per 5 anni. E’ la dimostrazione che i provvedimenti spot non bastano: “Servono politiche in grado di migliorare i contesti universitari in cui i ricercatori sono chiamati ad operare – conclude Rosina – e collegarli con l’universo industriale. Non basta convincerli a rientrare: in mancanza di prospettive se ne andranno di nuovo”.