La suprema corte cancella il 416 bis per Marcello Paparo e altri cinque imputati dell'inchiesta Isola. Da rifare il processo d'appello. E' il terzo caso in un anno nella regione. Confermati invece i reati fine di armi, lesioni e violenza privata
“Salta” un’altra condanna per mafia in Lombardia. La Cassazione ha annullato con rinvio la sentenza della Corte d’appello di Milano che infliggeva anche il 416bis a Marcello Paparo, imprenditore di origine calabrese residente da diversi anni tra Brugherio e Cologno Monzese, e ad altri cinque imputati. E’ la terza volta nel giro di un anno che la suprema corte boccia un’accusa di associazione mafiosa in Lombardia. E’ già accaduto per due distinti processi – “Cerberus” e “Parco Sud” – che riguardano le attività economiche, in particolare nell’edilizia e nell’immobiliare, del gruppo Barbaro-Papalia a Buccinasco.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso dell’avvocato Amedeo Rizza e di altri legali annullando le condanne per il reato di associazione mafiosa a Marcello Paparo (condannato a sei anni in secondo grado) e agli altri imputati e ha ordinato un nuovo processo d’appello. Sono state invece confermate le condanne per i “reati fine“, tra i quali detenzione illegale di armi, lesioni aggravate e violenza privata. La presunta “mafiosità” del gruppo Paparo è stata il nodo principale del processo. Nel primo grado, il Tribunale di Monza l’ha negata. In secondo grado, la Corte d’appello di Milano l’ha invece confermata. Ora la Cassazione cancella tutto, chiedendo un nuovo pronunciamento d’appello.
Marcello Paparo, quarantenne originario di Isola di Capo Rizzuto in provincia di Crotone, è finito in carcere nel 2009 con il fratello Romualdo e la figlia ventenne Luana. L’operazione “Isola”, coordinata dal pm Mario Venditti della Direzione distrettuale antimafia di Milano, fece parlare di sé perché le ditte di movimento terra dei Paparo lavoravano nel cantiere (pubblico) della tratta lombarda del Tav Milano-Venezia. Agli atti restano le intercettazioni telefoniche in cui un dipendente della nordicissima azienda Locatelli, di Grumello Monte in provincia di Bergamo, suggerisce al calabrese Romualdo Paparo come aggirare il limite del 2% sui subappalti: sui camion “schiaffaci due targhette Locatelli, no?”. Ed è sempre il bergamasco a intavolare il discorso sul “casino” comportato “dalla famosa legge antimafia” (la Locatelli sarà poi protagonista dell’inchiesta per corruzione che porterà in carcere l’assessore regionale Franco Nicoli Cristiani). Non solo. Con il consorzio di cooperative Ytaka, il gruppo gestiva la logistica dei supermercati Sma e, ha ricostruito l’inchiesta, aveva tentato di ottenere il piatto ancora più ricco del magazzino centrale di Esselunga a Biandrate, vicino a Novara.
Marcello Paparo era già stato in carcere dopo che i carabinieri gli avevano trovato una Beretta 7,65 con matricola abrasa nel cruscotto del suo suv. Tra le accuse che i giudici hanno ritenuto provate, quella di aver ordinato il pestaggio di un dipendente che “creava problemi” alla Sma, Nicola Padulano, lasciato a terra con il cranio fratturato a Segrate il 15 settembre 2006. Ma per giustificare una condanna per associazione mafiosa questo non basta. Nelle intercettazioni gli esponenti della famiglia Paparo commentano in modo approfondito i fatti di ‘ndrangheta di Isola di Capo Rizzuto, feudo dei clan Arena e Nicoscia. E a proposito dell’attentato a Giovanni Falcone, Romualdo Paparo passando in auto da Capaci si lascia scappare: “Mamma mia, quanto ho riso”. Così come, secondo gli investigatori, è riconducibile a dinamiche di ‘ndrangheta calabrese l’episodio che ha dato il via all’inchiesta Isola, cioè i colpi di pistola sparati verso l’abitazione di Marcello Paparo a Cologno nel 2004. Sono elementi sufficienti a contestare il 416bis lontano dalla Calabria e a pochi chilometri dal centro di Milano? Come per Buccinasco, mentre in Lombardia si scioglie il primo Comune per infiltrazione mafiosa, la parola torna ai giudici d’appello.