Con ancora davanti agli occhi l’ombrello garrulo dell’evasore Maradona, tanto fastidioso da far intonare a Raf un disperato ritornello su “cosa resterà di questi Anni Ottanta?”, ritroviamo proprio oggi, a due anni dalla morte, un altro talento dello sport che invece le tasse le aveva pagate e in pochi anni di carriera era già riuscito nella sua gioiosa follia e nel suo mai sciocco agire a vincere divertendo.

Marco Simoncelli si è fatto campione in un amen, correndo senza fregare gli avversari, vincendo senza mani sante. Ricordava Gilles Villeneuve, il Sic, con quella dissennatezza che evocava spettacolo; ricordava anche Ayrton Senna, il Sic, per quella sua aria dinoccolata, mai del tutto dentro al personaggio che doveva comunque e sempre intrattenere pubblico, astanti e fan. Un campione piccolo piccolo, un centauro che faceva casino senza fanfare, che andava forte e vinceva le gare della 250 e doveva diventare grande nella bagarre del Moto Gp, tutto silenzio e boccoloni, sotto quella capigliatura che sembrava uscita da qualche camerino del burlesque.

Non si sa bene oggi, nel 2013, dove l’epica dello sport vada a finire; se l’ipervitaminizzazione e il rigonfiamento delle performance abbiano cancellato l’arcaico e affascinante racconti dei pionieri; se la velocità con cui maciniamo gli avvenimenti atletici, i record, i risultati eclatanti dei gesti sportivi possa mantenere intatto il valore storico di chi osò mettere in discussione per primo i valori di Pierre de Coubertin.

Eppure Marco Simoncelli, le cui ceneri sono state disperse nell’aria dopo i funerali seguiti da 25000 persone e da una diretta tv sulle reti di Stato, era e rimarrà uno sportivo di quelli che sapevano d’antico, che non correvano per la fama ma per il piacere di sfidare la sorte. Un dovere lontano, un ruolo da occupare perché si era nati per quello, un piacere naturale nel rischiare oltretutto la vita. Simoncelli se n’è andato senza disturbare troppo, passando dalla cruna di un ago di una fine tragica e violenta alla Gigi Meroni, e con la stessa delicatezza con cui sorrideva, con la stessa limpidezza con cui se la giocava in pista e fuori tornava bambino, era e rimarrà un campione normale.

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