Depositate le ragioni della condanna a 9 anni e sei mesi per l'ex governatore: gli imputati "avevano quindi un vero e proprio programma criminale, volto a favorire, nell’attività di iniziativa legislativa ed amministrativa in materia di sanità in violazione di legge, gli interessi delle case di cura stesse, in particolare di quelle gestite dall’Angelini"
Un programma criminale continuato nel tempo. Questo, in sintesi, il contenuto delle motivazioni della sentenza del Tribunale di Pescara che il 22 luglio ha condannato in primo grado l’ex presidente della Regione Abruzzo Ottaviano Del Turco a 9 anni e sei mesi di carcere. “Tutti i reati commessi possono essere riuniti con il vincolo della continuazione – si legge nel testo depositato – l’unicità del disegno criminoso perseguito e l’illecito deviato utilizzo delle rispettive cariche e qualifiche a fini di favoritismo nei confronti di Angelini e di arricchimento personale”.
Nella sentenza del processo noto come Sanitopoli, i giudici scrivono che gli imputati “avevano quindi un vero e proprio programma criminale, volto a favorire, nell’attività di iniziativa legislativa ed amministrativa in materia di sanità in violazione di legge, gli interessi delle case di cura stesse, in particolare di quelle gestite dall’Angelini, su cui si è innestata l’attività corruttiva di questi. Programma – scrivono i giudici – diretto da Del Turco, organizzato dal Quarta, dal Cesarone e dal Masciarelli, ed eseguito dal Mazzocca, dal Di Stanislao, dal Boschetti, nonché dagli stessi Del Turco e Cesarone, attraverso le rispettive attività amministrative e legislative”.
Per i giudici, “tale programma non fu limitato alla realizzazione di uno o più reati preventivamente individuati, ma si dispiegò nel tempo, sostanzialmente per l’intera durata della permanenza degli imputati nelle loro funzioni, e fu finalizzato alla commissione di una serie indeterminata di delitti, quelli che, all’occorrenza, fossero serviti per realizzare il decritto disegno di favoritismo, sia mediante l’utilizzo per fini illeciti delle strutture amministrative (l’assessorato alla Sanità, la Asr) e societarie (la Fira e la Fira servizi) in cui gli imputati erano inseriti, sia mediante creazione di una struttura ad hoc in materia di sanità, la predetta cabina di regia, che sostanzialmente si sostituì alla giunta regionale nel prendere le decisioni più rilevanti in materia di sanità”.
Uno dei punti chiave della sentenza è quello della credibilità dell’ex patron di Villa Pini, Vincenzo Maria Angelini, definito il “grande accusatore”. “L’applicazione dei principi descritti al caso di specie impone di ritenere le dichiarazioni rese dall’Angelini sia intrinsecamente attendibili, sia riscontrate da elementi esterni in ordine alle modalità oggettive dei fatti riferiti e, pertanto, tali da assumere piena idoneità dimostrativa in ordine all’attribuzione dei fatti-reato ai singoli imputati coinvolti nella presente vicenda”. Per i giudici pescaresi quanto riferito dall’imprenditore “è apparso del tutto spontaneo (anche in considerazione delle numerose dichiarazioni spontanee rese a chiarimento della propria posizione o di dichiarazioni già rese), preciso, logico e coerente”.
Secondo il tribunale le dichiarazioni di Angelini risultano poi “suffragate da riscontri numerosi, certi e concernenti aspetti non marginali della narrazione. Ci si riferisce in primo luogo – scrivono – alla prova documentale costituita dalle contabili di prelevamento di denaro contante, dai tabulati telepass e dagli statini degli autisti della Regione Abruzzo”.
Ha collaborato Marco Manzo