Panama amara, come era facile prevedere. Ci restiamo giusto il tempo per vedere il canale che rese inutile l’impresa di Magellano e per scrutare il mare nei pressi dei moli del porto cargo senza ottenere notizie della Rabmobile (foto 1).
L’ accordo lo troviamo sulla prossima tappa: Cuba, che è a due ore di volo.
Il nostro agente all’Havana si chiama Augustin, contatto fornito a Pietro dall’associazione Italia-Cuba. Tiene una casa particular nel cuore della città vecchia, due camere indipendenti a prezzo onesto (20 dollari a testa). Sembra uscito da Frankenstein junior, considerate le tenebre in cui è avvolto l’appartamento al piano terra e la sua somiglianza con Marty Feldman, ma in realtà è un vero rivoluzionario, come testimoniano le pareti di Casa Marta. Umide, ma fiammeggianti.
Sapete come funziona qui all’Havana: si esce di strada senza una meta precisa e si aspetta di vedere cosa succede. Così filosofeggia il taxista Hector a bordo di una sferragliante Lada 1500, fedele compagna da 33 anni mentre dai finestrini violacei scorre il Parque Central (foto 3).
Facendoci largo tra gli amigos, ci sediamo a uno dei rari bar che accettano moneta nacional. Alla seconda birra, Pietro è già in confidenza con un pescatore subacqueo di nome William. Ha un cugino che lavora in Italia e proprio domani compie 42 anni. Parlano uno spagnolo farlocco, ma efficace, che frutta un invito alla festa di compleanno. “A che ora ?” “Quando volete. La festa è a casa mia, e dura tutto il giorno”. L’indomani, sul far del tramonto, battiamo alla porta di una casupola. Un vecchietto apre, ci sorride, fa cenno di entrare in un minuscolo vestibolo, indica una ripida scala di legno senza ringhiera, come quelle delle torri campanarie; ci arrampichiamo fino a sbucare su un’altana coperta di lamiera, metà terrazza e metà cucinotto, ci facciamo largo tra pentoloni e fili elettrici. Ad accoglierci c’è William con padre, madre, fratello e sorella, il suo amico Samuel, pescatore anche lui, e il vicino di casa Ramon. Fine della lista degli invitati. Dopo alcuni bicchieri di rum accompagnati da foglie di platano fritte e un assaggio di cardosa (zuppa tradizionale a base di fagioli e cotenne di maiale), ci congediamo.
Il tempo di sederci su una panchina e già un nuovo amigo si presenta; anche lui ha una sorella che lavorava in Italia e ci spiega quanto siamo fortunati; oggi è l’unico giorno al mese in cui le sigaraie sono autorizzate a vendere per conto proprio. Puros Cohiba a prezzi da affarone. Subito dopo le cichas -che peraltro si propongono benissimo anche da sole- e le aragoste (che sarebbero proibite), il sigaro è l’altro grande classico. Veniamo condotti in un’altra casupola, entriamo in un altro vestibolo dove una ragazza siede in silenzio sul letto di quella che deve essere la sua unica camera. Da sotto il materasso spunta un sacchetto pieno di sigaroni. “Sono gli esplendidos, quelli che fuma Fidel. Se vuoi fare un regalo a Dio, questo è il regalo giusto”. E non solo. All’accensione di ogni sigaro, se si accende bene, corrisponde un desiderio esaudito.
Trattiamo. Sei esplendidos per venti euro convertibili. La cifra è così bassa da renderci quasi certi del bidone. La certezza non l’avremo mai, siamo troppo incompetenti in materia di sigari; però tirano bene, hanno un buon profumo e ci mandano a dormire soddisfatti. Tre desideri a testa a Milano sarebbero una miseria; a Roma, mezza porzione. Qui all’Havana, bastano e avanzano.
(18- continua)