Decidere l’attacco del pezzo è sempre un momento topico per chi scrive. Dovrà essere bruciante come una staffilata o suadente come una brezza di mare? Poco fa ero incerto tra la citazione dell’immortale (anche se defunto) Giulio Andreotti “a pensar male si fa sempre bene” e l’adagio popolare secondo cui “le bugie hanno le gambe corte”. Alla fine ho deciso che ci volevano entrambe. Ma andiamo con ordine.
La notizia. Ieri, 23 ottobre, l’ammiraglio Luigi Binelli Mantelli, capo di stato maggiore della Difesa, ha inaugurato la base militare italiana di Gibuti. Non cercate la notizia sul sito del ministero. Come già nel luglio 2012, quando venne firmato l’accordo con il governo del piccolo Stato del Corno d’Africa, del viaggio tropicale della massima autorità militare italiana non c’è traccia. Eppure, tanto per limitarci a quella zona, quando nello scorso aprile l’ammiraglio fece una visita laggiù le foto ufficiali si sono sprecate. La notiziona del 23, secondo la Difesa, è l’incontro del sottosegretario Gioacchino Alfano con il presidente del Coni. Tema: “Sport e legalità: un unico valore”. Minchia, signor tenente (non vogliatemene: è una citazione).
Del viaggio gibutino ne veniamo a sapere solo grazie a shippingonline.it, un sito specializzato nell’informazione su navi e traffico mercantile. Secondo questo sito il 23 ottobre l’audace Binelli Mantelli, mentre il sottosegretario Alfano metteva in atto una manovra che in gergo militare si chiamerebbe obfuscation, piombava a Gibuti per tagliare il nastro di questa base definita la “prima vera base logistico operativa” (il virgolettato è dell’articolo di shippingonline.it per cui ritengo sia attribuibile allo stesso ammiraglio) fuori dai confini nazionali. Lo stesso articolo spiega che si tratta di una infrastruttura di ben 5 ettari di superficie (sarebbero 50mila metri quadrati, mica bruscolini) che già da ieri ospita i primi cento militari che saliranno a trecento entro la fine dell’anno quando la base sarà “pienamente operativa”. L’hanno costruita in meno di due mesi i genieri del 6° reggimento genio pionieri di Roma, che con il suo battaglione “Nemi” è la prima unità dell’Esercito italiano che ha capacità di costruzione di tipo permanente: case, alloggi, edifici. Insomma quello che serve per delle forze armate che vogliono uscire permanentemente dai confini nazionali e per le quali dunque non bastano più tende e container.
Che ci faremo noi tra le sabbie di Gibuti e il solleone che picchia duro a 50° non si sa. O meglio: lo si sa benissimo. Il sottosegretario Alfano (sì, lo stesso del Coni: infaticabile) a luglio rispondendo a un’interrogazione della deputata Emanuela Corda del M5S, ha detto che la realizzazione della base ”si deve inquadrare nel più ampio contesto delle attività di contrasto al fenomeno della pirateria”. Come dargli torto. Signora mia, con tutti ‘sti pirati in giro per il mondo non si può più stare tranquille. Peccato che i conti non tornino: trecento uomini e una base militare permanente (“la prima” fuori dell’Italia dice l’ammiraglio) per scortare un po’ di mercantili sembra un tantino esagerato. Secondo l’ammiraglio Bruno Branciforte, in una audizione al Senato del 2011 quando era capo di stato maggiore della Marina, i cosiddetti Nuclei militari di protezione italiani (come quello di cui facevano parte Latorre e Girone ora detenuti in India) sono una decina, ciascuno con sei uomini. In totale dunque sessanta uomini. Per arrivare a trecento mancano 240 militari. Va bene che une armée marche à son estomac come ci ricordava qualche anno fa il Bonaparte, ma duecentoquaranta cuochi sarebbero tantini anche per quell’albergo a sette stelle di Abu Dhabi con i rubinetti d’oro.
E allora? E allora i mercantili sono una scusa bella e buona. Perché questo di Gibuti è un avamposto permanente in “un’area di enorme importanza strategica destinata ad essere più importante e strategica di Suez e di Gibilterra”, come ha ribadito Binelli Mantelli congratulandosi con il colonnello Cesare Canicchio che attualmente comanda la base. “Ora ci siamo anche noi. E ci saremo per molti anni” ha preconizzato l’ammiraglio. Nella base ci sono già elementi delle forze speciali e ce ne saranno ancor di più nei prossimi mesi, perché, ipse dixit, la “nostra” Gibuti sarà il quartier generale dei marò impegnati nella protezione dei cargo dagli attacchi dei pirati ma anche la base di team di forze speciali pronti a vari tipi di interventi, dall’antiterrorismo alla liberazione di ostaggi.
Et voilà, mesdames et messieurs. Disvelato l’arcano. I pirati sono la copertura, ma il vero obiettivo sono i terroristi. Non che il problema non esista, ma certo esiste anche un grosso, enorme problema quando un Governo dice una cosa al Parlamento e ne pensa un’altra. Quando ci accodiamo agli americani per fare la sporca guerra clandestina a un nemico indeterminato. La stessa guerra che giustifica le intercettazioni a strascico della NSA e di cui solo l’Italia sembra non essersi accorta. Se Letta & Co. ritengono che la bushiana global war on terrorism sia anche la nostra, vadano in tv, lo proclamino urbi et orbi, e Letta si autoinvesta del titolo di commander-in-chief all’amatriciana così quando incontra Obama, anziché con le sue strette curiali a doppia mano, lo può omaggiate con un bel “saluto al Capo”: Hail to the one we selected as commander / Hail to the President! Hail to the Chief!
Naturalmente nell’anno e più trascorso dall’accordo con il governo di Gibuti i nostri bravi gnomi contabili hanno fatto in modo che tutte le spese e le autorizzazioni fossero a posto. Così il finanziamento della base è stato infilato, ce lo ha detto sempre Alfano nella risposta alla Corda, nel decreto dell’ottobre 2012 denominato “Ulteriori misure per la crescita del Paese”. Una bella base a Gibuti, sai che pungolo per l’economia. E sapete cosa c’era scritto al comma 5, dell’articolo 33 di questo decreto? “Al fine di assicurare la realizzazione, in uno o più degli Stati le cui acque territoriali confinano con gli spazi marittimi internazionali a rischio di pirateria……di apprestamenti e dispositivi info-operativi e di sicurezza idonei a garantire il supporto e la protezione del personale impiegato anche nelle attività internazionali di contrasto alla pirateria ed assicurare una maggior tutela della libertà di navigazione del naviglio commerciale nazionale”. Apprestamenti info-operativi e di sicurezza? Ma siamo fuori? In un Paese normale i ministri che hanno proposto questa norma dovrebbero essere deferiti a qualche tribunale. Non è reato ingannare il Parlamento? Perché non c’erano “uno o più Stati” ma c’era già Gibuti (l’accordo, lo scrissi qui a maggio, fu firmato nel luglio 2012). C’era già il progetto. C’erano già i piani. E a che prezzo questi apprestamenti info-operativi? La bazzecola di 27,1 milioni di euro fino al 2020. Solo per avere la base, oltre ai costi operativi e dei soldati che vi saranno stanziati.
Grazie a quella norma occultata tra decine di altre che riguardavano tutt’altro (ma ci siamo abituati, non è vero?) il soldi non sono un problema come ricorda l’ammiraglio Binelli Mantelli. “L’investimento, comunque, vale la pena. La nostra presenza qui è di fondamentale importanza, e costa tre milioni l’anno. Se non possiamo permetterci nemmeno questi tanto vale che andiamo a fare i ferrovieri”. Perché non ci abbiamo pensato prima?
P.S. Sul perché poi ho pensato che non fosse il caso di scegliere un attacco del pezzo piuttosto che un altro, il pensar male andreottiano è riferito al titolo di un mio articolo dello scorso maggio, “L’impero colpisce ancora, a Gibuti una base italiana”, e per le gambe corte delle bugie, mi pare evidente.