Ventiquattro ore nella vita di Niko Fischer. Un anti-eroe a Berlino, con un oggetto di valore minimal, quotidiano, perfino ridicolo nel mirino: una tazza di caffè. Pare poco, lo è, ma sorbirla non è un gioco da ragazzi. Ventenne o giù di lì, Niko fluttua per le vie della città tedesca e via dalla pazza folla, con echi da on the road metropolitano: la meta è ancora il viaggio, e pazienza se la caffeina non è glam né maudit. Niko lo vuole, un caffè dannatamente normale, senza dilemmi su arabica e altre miscele, senza convenevoli su sconti e promozioni. Non ci resta che seguirlo, il cielo sopra Berlino non è più lo stesso, ma il bianco e nero sì: tra echi di Nouvelle Vague, musica jazz e sfottò sulla scena teatrale underground, il regista, esordiente, è Jan Ole Gerster, che con questo Oh Boy ha messo in bacheca ben 6 German Academy Awards. Gridare al miracolo sarebbe eccessivo, del resto, la cifra stilistica e poetica del film per prima lo rifiuterebbe: siamo di fronte a un’opera prima senza eccessive ambizioni, ma insieme con la capacità di dirsi senza fronzoli e darsi al pubblico sinceramente.
C’è un correlato, viceversa, a suggerire il miracolo a Berlino: chi lo fa in Italia un Oh Boy? Domanda retorica, meglio, affondata dalla retorica stessa di chi approdando sul grande schermo si sente già Autore, chi, viceversa, tira indietro la camera per non “bruciarsi” e chi, ancora, si omogenea senza drammi al gusto dominante: insomma, la prima volta da noi paga più di un peccato. E Oh Boy ci aiuta a capire perché: senza il nostrano pauperismo delle intenzioni né il massimalismo degli esiti, fa il suo, e dice molto dell’identità dei giovani oggi, ma evitando di calcare la macchina da presa sull’induzione. Jan Ole Gerster fruga nella propria biografia e tallona con Niko l’indecisione, l’astenia e l’ignavia dei 20-30 enni e più di Berlino e altre città, non solo europee: si va in giro, ma a muovere le gambe di Niko e i suoi fratelli è solo la voglia di un caffettino, come se una camera caffè dovesse inquadrare la generazione X (o la lettera che preferite).
Il miracolo, se ne vogliamo trovare uno, è l’equilibrio, la naturalezza, il furto al quotidiano di una vita da riconsegnare all’arte: Oh Boy è un ready-made, ti fa vedere quel che hai sotto gli occhi sotto una nuove luce, una nuova aura, un inedito status. Ed ecco Niko, un corso di laurea in legge lasciato a metà, e mille altre magagne affidate all’inerzia: si sveglia con la ragazza, ma è l’ultima volta; il padre abbiente lo accoglie sul campo da golf, sgama l’abbandono dell’università e chiude il rubinetto.
Drammi ma vergati con ironia, nonsense e punteggiature argute su usi e consumi del vivere contemporaneo: si ride, anzi, sorride non di lui, ma con lui. Si ride con noi, e il climax tragicomico si ha con una patente ritirata per guida in stato di ebbrezza e da riguadagnare davanti a uno psicologo: micro-peni e fidanzate, la privacy non c’è, Niko è alla mercé, la patente non torna. Si procede a piedi, dunque, in una Berlino affaccendata e indifferente: il nuovo vicino di casa gli getta addosso la sofferenza per la mastectomia della moglie, un’attrice teatrale, ex cicciona, gli si offre invano.
Niko va, strappa un abbraccio alla nonna di un pusher, prende gli schiaffi dai vandali e trova al bancone un vecchio tornato da poco nella Berlino abbandonata la Notte dei cristalli, perché sui vetri, ricorda, non poteva andare in bicicletta. Memento mori, ma forse per Niko è la possibilità di una nuova vita. Dimenticavamo, Niko è un perfetto Tom Schilling, anima, corpo e under statement al servizio di un one man show senza clamori né riflettori. Un ragazzo, come tanti altri, un film, come pochi altri. Oh Boy…
Il Fatto Quotidiano, 24 ottobre 2013