In Italia si parla di Imu un giorno sì e l’altro pure con l’intento – vero, presunto o propagandistico che sia – di toglierla. In Cina, la tassa sulla proprietà immobiliare è vista invece come uno strumento per costruire il futuro. A oggi, esiste solo in due città e a titolo sperimentale: Shanghai e Chongqing. Tuttavia, si rincorrono ormai le voci secondo cui il terzo plenum del Partito comunista di novembre la estenderà a tutto il Paese. In quella sede saranno probabilmente delineate le linee guida per la grande trasformazione economica dei prossimi dieci anni, in cui il “modello Deng Xiaoping”, fondato su investimenti, basso costo del lavoro ed esportazioni, dovrà lasciare il posto a un nuovo “modello Xi Jinping”, di cui si vedono i contorni ma non ancora i dettagli: più consumi interni e meno export, abbandono della paccottiglia a favore di nuove produzioni ad alto valore aggiunto, crescita meno veloce ma più equilibrata. Tra le specifiche del piano, ecco appunto la tassa sugli immobili.
Viene spontaneo parlare di “Imu cinese”, ma le differenze dalla nostra imposta sono notevoli. L’Imu italiana si impone sulla rendita catastale di qualsiasi immobile, con aliquote progressive in base alla natura più o meno “superflua” dell’edificio rispetto ai bisogni del suo proprietario (le prime case sono tassate meno delle seconde e terze). A Shanghai e Chongqing, invece, la tassa sulla proprietà è finora imposta solo sugli appartamenti acquistati dopo il 2011 e si basa sul prezzo di mercato. C’è poi una tassa speciale sulle seconde case acquistate da chi non ha un’attività lavorativa o altri interessi in città. È chiara la differenza: in Italia si cerca di fare cassa, in Cina di rendere la società un po’ meno diseguale, abbattendo al contempo la pericolosa bolla immobiliare.
Il punto è che oltre Muraglia, “casa” è diventato davvero sinonimo di “diseguaglianza” e che il continuo gonfiarsi della bolla immobiliare rischia di destabilizzare sia il sistema finanziario sia quello sociale. Al tempo stesso, c’è chi ancora la casa non ce l’ha. Non si può quindi tassare indiscriminatamente e bisogna colpire chi con la casa specula e corrompe, contribuendo ad allargare una forbice sociale già allarmante.
L’esempio forse più eclatante è quello della funzionaria originaria dello Shaanxi, immediatamente soprannominata “Sorella casa”, che possedeva 41 proprietà immobiliari a Pechino, per un totale di diecimila metri quadri. Il caso scoppiò lo scorso febbraio e si scoprì tra l’altro che la signora era anche in possesso di un falso certificato di residenza (hukou) nella capitale. È una di quelle storie che fanno schiumare di rabbia parecchi cinesi, di solito quelli rimasti attardati sulla via dell’”arricchirsi è glorioso”; insieme a mille altre, erode il consenso per il Partito ed è politicamente destabilizzante. Si capisce quindi perché la casa abbia ormai assunto un così grande valore simbolico.
Così, nonostante gli sforzi del governo centrale, i prezzi delle case stanno crescendo da sedici mesi consecutivi (da giugno 2012). La tassa renderebbe quindi meno proficuo comprare un immobile e lasciarlo vuoto e diversificherebbe anche le risorse fiscali per i governi locali, cronicamente in rosso. Oggi, per colmare i buchi in bilancio, le autorità locali ricorrono spesso alla vendita di terreni ai palazzinari, espropriandone i contadini (che diventano migranti) e sottraendoli all’agricoltura (e il Dragone è sempre più appeso al filo delle importazioni alimentari).Sono quindi chiare le enormi implicazioni di un eventuale allargamento della tassa sulla proprietà immobiliare a tutta la Cina. Non è semplicemente una faccenda di Imu.
di Gabriele Battaglia