C’è un femminismo borghese che non mi rappresenta. E’ quello che secondo la femminista Nancy Fraser su The Guardian del 14 ottobre è giudicato “ancella del neoliberismo”. 

Di più. Sostiene la Fraser che questo femminismo borghese abbia facilitato il compito al neoliberismo, anteponendo la contraddizione di genere alla differenza di classe. E in realtà la sua non è neppure una analisi del tutto originale giacché altri femminismi – postcoloniale, queer, delle afro americane – avevano già chiarito tutto ciò. Si parla dunque di un femminismo bianco, borghese, filo/istituzionale, per lo più etero, che non analizza la realtà in senso intersezionale.

Tema usato strumentalmente: la violenza sulle donne (c’è il nemico là fuori!), perciò restiamo unite, ché si identifica una unica matrice, e non è né sociale né economica, quasi non è neppure culturale. Unico pericolo sarebbe l’uomo in quanto tale dal quale bisognerebbe definitivamente separarsi. L’uomo: colui che mai si sospetterebbe essere perfino antisessista, al più dovrebbe essere rieducato. Con la galera o sollecitando paternalismi. Importa poco, infatti, che gli uomini compiano un percorso autodeterminato. Dovranno prendersi cura di noi, sorvegliarci, proteggerci e salvarci.

Le donne, poi, sono costantemente vittimizzate, rappresentate come creature infantili, bisognose di aiuto, prive di forza e capacità di chiedere e trovare strumenti e soluzioni per se stesse. Un déjà vu, insomma.

Invece donne e uomini, come abbiamo visto a Roma il 19 ottobre, insieme a ogni altro genere esistente, restano uniti nelle piazze a lottare contro la precarietà. Raccontano altri contesti in cui nominarsi “donne” o “uomini” oggi non ha neppure senso, perché i corpi e la biologia, di certo, non realizzano più i generi.

Ma quel che segnalo è che il femminismo borghese decide anche per me, rende invisibili le mie istanze, stringe accordi con chi proclama l’utilità di un decreto sicurezza in cui la repressione viene siglata anche in mio nome. Decide che le uniche politiche economiche che mi riguardano sono quelle che parlano di conciliazione, avallando flessibilità e nuove regole del mercato del lavoro.

Classista e moralista, quel femminismo decide per me quali dovrebbero essere i limiti della mia autodeterminazione. Per “il mio bene” mi giudica sempre subordinata e incapace di intendere e volere se il mio lavoro è quello in cui si espone un corpo. Per “il bene delle donne”, facendo confusione tra tratta, sfruttamento orribile, e sex working per scelta, ignora le rivendicazioni delle sex workers che da tempo chiedono regolarizzazione.

Quando si occupa di migranti le sovradetermina. Quel che sa esprimere è neocolonialismo. Togliere il velo, convertirsi alla civile cultura occidentale, salvarle anche se hanno voce e idee autonome per salvarsi da sole

Così, mischiate in entità dalle “larghe intese”, le femministe borghesi legittimano guerre “umanitarie”, interventismi che passano sempre sui corpi delle donne, salvo tacere sul fatto che il badantaggio sia una delle tante forme di sfruttamento. Perché è difficile dire che l’emancipazione delle donne passa attraverso la schiavitù di altre donne. Badanti che in Italia prendi un tanto al chilo. Scampate all’annegamento. Prive di diritti. Ricattabili.

Infine, quel femminismo, insiste sulle differenze “naturali”, escludenti e vagamente omo/transfobiche. In quanto donne avremmo migliori capacità, istinto materno, predisposizione alla cura. Dateci dunque le quote rosa perché le donne al governo sono meglio, rimettono a posto che è una meraviglia, fanno le faccende nei ministeri e si “prendono cura” della madrepatria.

Io, però, non vedo questa gran differenza. Quando, ad esempio, si occupano di economia propongono il medesimo copione. Restano donne borghesi che facendo leva sul gender gap assumono incarichi di maggior privilegio.

Esiste un gap economico che nessuna quota rosa colmerà. Quote precarie. Di redistribuzione di diritti che tengano conto della discriminazione di genere, ma anche di classe, di etnia.

Questo, forse serve.

Nessuno faccia più pessime leggi in mio nome e nessuna si senta ancora in diritto di parlare in nome di tutte perché donna.

Bisognerà, credo, soltanto, ricominciare ad ascoltarsi. Nel rispetto delle diversità e dell’autodeterminazione di tutte. Senza rimuovere il conflitto. Senza tentazioni d’egemonia. Perché ciascuna parla per sé. Dal personale al politico. Ed è questa cosa qui che io intendo per femminismo.

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