Se Matteo Renzi, come scrive nel suo programma, vuole “spalancare le porte del partito alla curiosità, alla passione”, perciò a militanti veri, senza altra pretesa che l’ascolto della propria idea, il giudizio su un loro pensiero, inizi a dare l’esempio e spalanchi, per farsi capire ancora meglio, pure le porte della sua corrente. Faccia leggere i nomi delle decine di nuovi supporters, e – curiosità per curiosità – inizi a spulciare i curricula di molte decine di essi. Prenderebbe posto forse lo stupore di vedere avviata in contemporanea la rottamazione dei vecchi vizi grazie all’aiuto dei portatori sani e indiscutibili del ciclo produttivo della poltrona arrotolata sotto al mento, teorici delle pratiche illustrate da De Gaulle: il potere non si conquista, si arraffa.
E’ l’indifferenza, l’ignavia e in troppi casi oramai la collusione con un sistema di governo ferocemente clientelare che debilita il corpo del Partito democratico, lo riduce a vessillo senza identità, spogliato di alcun valore specifico, e giustamente denigrato quando perora il cambiamento. Il cambiamento di che? E a quale titolo, con quale faccia? I valori, benedetti valori, sono rinchiusi e sempre dimenticati nelle cartelle del vasto programma che precede l’elezione. Valori ripetuti quindici volte da Cuperlo nella illustrazione del nuovo che verrà, trentacinque da Civati. Renzi si è fermato alla soglia di cinque, ed è stato un bene. Non affettare parole, ma produrre fatti e cure severe per un partito posseduto da un virus letale: il trasformismo della sua classe dirigente, l’opportunismo di vaste porzioni dell’apparato, l’immoralità come elemento oramai costituente.
In meno di quattro anni il numero degli iscritti si riduce di tre/quarti, con picchi in alto e in basso che documentano, oltre ogni ragionevole dubbio, la natura elettoralistica e sfacciatamente clientelare dei suoi iscritti. Erano 820.607 nel 2009, poi 617.240 nel 2010, quindi un salto all’ingiù: 500.163 nel 2012. Nel mese scorso Renzi riferiva di non più di 205mila tessere rinnovate. In meno di quattro anni dunque tre iscritti su quattro si sono dati alla fuga, ed è questa la migliore delle ipotesi. Un’ecatombe che avrebbe dovuto produrre patimento e riflessione in ogni angolo del partito, monopolizzare l’attenzione, dominare ogni azione conseguente. Invece zero. Resiste perciò (e purtroppo) l’ipotesi alternativa, che è anche peggio: iscrizioni gonfiate a tavolino, reclutamenti d’apparato, liste di accoglienza progettate alla bisogna, tessere on demand, intese nel senso dell’opportunità. Varietà di fenomeni deviati che conducono all’immagine di un partito-rana: si gonfia in prossimità del congresso, quando le tessere servono a vincere, si sgonfia fino all’inedia quando i giochi sono fatti. Meno siamo meglio stiamo.
Il rottamatore, se ancora l’intento è confermato, abbia almeno la prudenza di guardarsi intorno e chieda conto prima di accettare i regali. Dal sud è tutto un fiorire di disponibilità, e da qualche giorno, notizia davvero profumata, persino Vincenzo De Luca, il sindaco di Salerno, novello Chavez, sta valutando se non sia il caso di cambiare fornitore: Bersani è politicamente morto oramai, viva Renzi!
Non che la questione debba disinteressare Gianni Cuperlo, lo sfidante al quale l’apparato concede un super bonus di fedeltà: dei venti segretari regionali, otto sono già con lui, due in procinto e alcuni in riflessiva posizione d’attesa. Anche Cuperlo, dirigente di qualità, vuole cambiare il partito, almeno così dice, e anche lui dev’essere avvertito, perché forse non sa che esiste una cronaca quotidiana di tessere comprate e vendute. Singolarmente, come quella affibbiata a sua insaputa a una ragazza di Catania, o a pacchetti assai più nutriti e meglio assortiti. In Sicilia, accusa Civati, non c’è misura e non c’è controllo: “Il Pd va a chi offre di più”. E a Lecce acquisizioni di doti elettorali sospette sono state denunciate, illustrate nella loro singola predestinazione. Ma a chi interessa?
Il Fatto Quotidiano, 22 ottobre 2013