Questa notte mio figlio Giosué, otto anni, non riesce a prendere sonno. Ha provato poco fa a venire a dormire nel mio letto, ma io gli ho chiesto di andarsene, perché ho una spalla che mi fa male, postumi di una caduta dalla Vespa di qualche settimana fa. E poi il mio letto è una piazza e mezza scarsa ed in due ci si dorme male.

Dopo un po’ capisco che Giosuè continua a non dormire, perché vedo la luce accesa nella sua stanza, quella in cui dorme con i suoi due fratelli. Mi affaccio alla porta e lo vedo in piedi sul suo letto, con gli occhi smarriti che guardano verso la porta, con quegli occhi che  diventano imploranti quando mi vede. Allora decido di farlo addormentare mettendomi io accanto a lui nel suo letto, più piccolo e più corto del mio, tanto corto che sono costretto a rannicchiare le gambe. Lui mi prende la mano, mi costringe a girarmi sulla spalla che mi fa male e in poco meno di un minuto si addormenta. Lo guardo: un minuto, dieci minuti, un’ora. Ogni tanto gli accarezzo il viso, per capire se il sonno è finalmente profondo. In realtà dorme, ma se mi alzassi so che si risveglierebbe. E poi ormai è chiaro, sono io che stanotte non riuscirò più a dormire. E allora decido di continuare a guardarlo, ancora un po’ turbato da quel suo sguardo smarrito. La testa parte con i pericolosissimi pensieri notturni, quelli in cui per intenderci, quando capita di non dormire a chi non soffra d’insonnia, uno crede di rialzarsi, tra un po’, e di riuscire a cambiare il mondo, per poi smettere di crederci già lavandosi i denti e sporcandosi la maglietta con il dentifricio, un modo come un altro di tornare alla realtà quotidiana e di leggere i propri intensi pensieri notturni come banali sogni ad occhi aperti.

Domani mi aspetta una giornata di lavoro, anche se più vado avanti e più mi riesce difficile chiamare lavoro quello che faccio. Vedrò un’ora di scene  di un film in lavorazione; andrò in una scuola ad insegnare come si produce un film, pur non capendo più  se abbia senso continuare ad allevare sogni o meglio utopie, quando una persona su tre in questo paese non mette piede in un cinema, spesso anche perché non ha i soldi per andarci, e tra un po’ sarà una persona su due a non farlo; purtroppo nel pomeriggio sarò un po’ contrariato perché a causa di questa lunghissima lezione non riuscirò a vedere mio figlio Luca, dodici anni, giocare a pallone; la sera andrò a fare il mio dovere di giurato in un concorso di un festival di cortometraggi sulla Memoria, perfetto in un paese che non si ricorda più nemmeno di quello che è successo un mese fa.

Però una certezza ce l’ho: mi accompagnerà lo sguardo smarrito di Giosué, il suo prendermi la mano, l’illusione di averlo aiutato a ritrovarsi per una notte.

Cose da poco. Meglio di niente.

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