Italy in a day è il progetto di film coordinato da Gabriele Salvatores (e coprodotto da Rai Cinema) che invita tutti gli italiani a girare il loro “film”, o meglio il loro contributo al film, nella giornata di oggi 26 ottobre. Il film è il seguito di un’altra analoga esperienza, Life in a day, realizzata nel 2010 sotto l’egida di Ridley Scott. E’ un cinema dal basso quello che propone Salvatores, ma è soprattutto la rappresentazione plastica della definitiva decomposizione del pianeta cinema per come si era conosciuto e vissuto per tanti decenni.
Decomposizione che però non ha nulla di necrotico, ma è soltanto il sintomo di una più complessiva esperienza di riconfigurazione della scena mediatica. In un paesaggio ormai privo di barriere (che cos’è un documentario, che cos’è la finzione?), Italy in a day vorrebbe essere l’occasione di socializzare il cinema come “luogo comune”, non più soltanto luogo di consumo comune, ma anche luogo di produzione comune. E’ un po’ come se si sentisse il bisogno di “togliere la maiuscola” all’esperienza del cinema, certificandola attraverso quest’occasione come la forma più “democratica” e “diretta”: “Filmate quello che vi suggerisce il vostro cuore”, esorta Salvatores dal promo del film.
Ora, c’è un dato curioso che sembra contraddire questo cinema “espanso” che dissolve (in apparenza) la nozione di autore: tra il 2003 e il 2012 in Italia si sono chiusi 712 cinema e se ne sono aperti soltanto 133. Ma i 712 cinema chiusi avevano 850 schermi (quindi erano quasi tutte monosale), mentre i 133 cinema aperti contano 1118 schermi (di fatto sono praticamente tutte multisale, con una media di 8,4 schermi per ogni cinema). Come dire che in dieci anni l’offerta di cinema è cresciuta (di 268 schermi).
Dunque il cinema, anche quello della sala che per molti era finito, non è affatto morto: ha solo cambiato pelle, come cambiano pelle le molte forme produttive e distributive di cui Italy in a day è un esempio. Il cinema si sposta, si rilancia continuamente in nuove forme di fruizione e di media(tizza)zione, proponendo nuovi e anche vecchi dispositivi che non necessariamente confliggono tra di loro: accanto alle sale cresciute, anche il web segna una crescita del consumo di audiovisivo e il cinema si consuma sempre più dappertutto. Ma lo zoccolo duro di quei cento milioni di spettatori che ogni anno comprano il biglietto al botteghino segnala che comunque il cinema è ancora (anche) una questione di “nome proprio”: quei cento milioni vanno al cinema perché c’è qualcuno che ha da dir loro qualcosa.
In anni lontani Cesare Zavattini teorizzava un cinema diretto, analitico, privo di mediazioni, come chiave di una libertà dello sguardo che aveva un risvolto anche estetico. Per come nasce, l’esperienza di Italy in a day sembra meno vicina a quell’idea di cinema che a un bisogno diffuso di democrazia diretta che oggi in Italia si esplica in molte forme: dal quarto d’ora di celebrità per tutti di warholiana memoria, alle tentazioni plebiscitarie che animano la scena politica. In molte forme c’è il rischio strisciante di una deriva un po’ populista. Forse non basta prendere il tablet o lo smartphone in mano per diventare registi. O forse invece sì.
Comunque il cinema è morto, viva il cinema.