Ogni volta che torno al campo rom la tentazione è sempre la stessa, vorrei abbandonarmi a tutte le resistenze, indottrinata per benino dalle leggende che di volta in volta ho appreso e messo da parte, mi arrendo al pregiudizio, non respingerlo, è già qualcosa. Sono buoni sono cattivi?

Ho conosciuto il macedone del campo rom di Siracusa e tutta la sua stramba stirpe di senza patria, gli apolidi stanziali (sembrerebbe una contraddizione) che vivevano nella baraccopoli oltre la città, lungo gli  acquitrini e sotto i fumi di ex fabbriche di amianto. Skender veniva da Skopje, di lui ne ho già parlato, era sposato a una serba, aveva i denti d’oro, secondo i canoni rom, beveva vodka e mangiava carne sul fuoco e secondo le sue teorie da sentimentale i rom stavano come i girasoli, mangiavano carne sul fuoco e bevevano vodka.

Ho partecipato alle loro feste, il 6 maggio, la più importante festa rom, del Gurgevdan, in quel caos pregno di ritmi esotici, di canzoni albanesi e abiti di raso, non ho imparato a temerli né a invidiarli di meno, piuttosto segretamente, con uno strano nauseante pudore a reprimere ogni lecito impulso e l’ammissione di debolezza: chi siete? Vorrei non domandarmelo più, non cedere al pietismo sconsiderato e al suo contrario.

Sono capaci di rubare i bambini, comprarli stuprarli? I pregiudizi raccontano verità su larga scala e non sul dettaglio?

Hismet, detto Bruno, era nato in Montenegro, non perché fosse un rom, fu comunque capace di sodomizzare le figlie, senz’altro bruciare la carne scura della sua donna, morderle i capezzoli senza passione, soltanto crudelmente. Invece Skender sembrava pacifico, millantava di aver suonato con Kusturica, grancassa e violini, su una collina di Sarajevo, mentre sparavano i cecchini. Ma non era vero, Skender doveva vendere cinquemila scarpe e il suo smacchiatore miracoloso e così sul margine dell’acquitrino, al di là della stecconata, con il sole in faccia, era il rom, lo zingaro (mai termine fu più odiato dall’enclave), era Barbalù, o Taras Bulba, il cosacco indomito, in una percezione molto letteraria e fasulla per la verità.

Oppure erano tutti malati, nella convinzione generale, erano tutti tisici, Sofia, la vecchia, lo era veramente, scrivo al passato, ma Sofia vecchissima è ancora viva, fumava orribili sigarette senza filtro, la Venerabile del campo che se la chiamavi zingara ti rompeva le ossa, “ te faccio culo” prometteva all’incauto. Sofia, buona, dai, una foto, disse l’incauto – cioè sarei io – una volta che volevo scriverci un pezzo come si deve. “Cosa cazzo foto? Io te tagli gola”. Ma non lo faceva veramente.
 

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