Come lo spieghi Lou Reed? Come? La risposta è semplice: non lo spieghi. Ascoltatevi “Transformer“, ascoltatevi “Berlin“, dischi che hanno creato un solco profondissimo nella musica. Che l’hanno squarciata, rivelata, segnata. Se ne va così Lou, in una tiepida domenica d’ottobre, in un silenzio pomeridiano che si scioglie nella mestizia dei messaggi d’affetto in ogni dove.
Tanto se ne legge su internet che d’improvviso si fa luogo quasi familiare e caldo, altresì ricevo telefonate da mia madre. Così le generazioni si riuniscono, creando un fil rouge nella notizia di una morte che unisce cinquant’anni di musica e persone.
E’ stato, più di ogni altro, una rockstar dal volto umano. Le sue rughe segnavano un viso sempre vivido, occhi che parlavano e una voce che stendeva. Che vuoi dire dei Velvet Underground, che si vuol dire di quella chitarra tagliente? Che senso ha farne l’esegesi sull’importanza storica, ora? Ogni parola è superflua.
E allora, chissenefrega di mille parole sul nulla su un genio che se ne è andato. Chissenefrega di tutto e pure delle mie lacrime proprio ora all’ascolto di una sua canzone. L’unico mio perfect day è quello in cui ho conosciuto la tua musica. Grazie Lou.