È il rock che perde un altro pezzo di poesia, sicuramente una delle migliori, ma è anche un po’ come se New York avesse lasciato molte luci spente nel suo infinito skyline. Perché Lou Reed era nato a Brooklyn, cresciuto a Long Island e in quella New York, fatta del Greenwich Village, di Bob Dylan, dei poeti della Beat Generation, aveva camminato da protagonista. Prima con i Velvet Underground e Andy Warhol, poi da solo. Suonava qualsiasi cosa gli capitasse (l’armonica a bocca meglio di qualunque altro strumento) e sputava una voce aspra che era un pugno dritto allo stomaco, capace di piegarti a metà. Per chi non ci credesse ascolti Kill Your Sons, è una tra le sue tante. Racconta di quando nel 1956 gli fecero fare l’elettroshock che sarebbe servito a curare la bisessualità. Funzionava così, anche in quell’America puritana e ipocrita soprattutto, dove nascere diverso, nero, gay, senza quattrini, poteva essere una colpa. Da curare appunto.
Un genio? Sicuramente. Altrimenti non porti appresso quel nome, non metti in piedi una band come i Velvet Underground, non scrivi un pezzo come Perfect Day e, qualche anno dopo, Walk on the Wild Side. Siamo nel 1975 e Lou Reed accompagna chi lo ascolta in quello strampalato e fascinoso mondo che era la Factory di Andy Warhol, e siamo nel bel mezzo di un’altra rivoluzione. Ci sono i Rolling Stones. C’è il David Bowie di Heroes e tutto quello che ne sarebbe seguito.
Sulla sua pagina Facebook, ieri a mezzogiorno, è apparsa una porta con una foto dell’ultimo Reed. La porta è chiusa. Probabilmente è la porta del paradiso o di qualsiasi altro posto dove faranno a gara per averlo tra loro. Una cortesia: lasciatela aperta quella porta, ci sono sere in cui avremo bisogno della sua voce roca, delle sigarette. Della parola. E della musica che Lou Reed ci ha regalato e che ci terremo stretta, come il più prezioso dei regali.
Il Fatto Quotidiano del Lunedì, 28 Ottobre 2013