Lo spazio pubblico, attraversato da via Gigi Chessa, che li separa. Da una parte la piazza vera e propria, definita da due bassi fronti di edifici (dalla sagoma differente), che avrebbero dovuto essere occupati al piano stradale, porticato, da attività commerciali. Che ancora non ci sono. Al centro, circondata su tre lati da parcheggi per auto, la piazza. Ulteriormente sottolineata dalla geometria della suddivisione interna fatta di aiuole, incolte, e passaggi pedonali sui quale restano delle panchine. In parte distrutte. Una vaga ma insistente sensazione di desolato abbandono avvolge quel che c’é.
Dall’altra parte c’è un parco. Che si distende fino a via Francesco Menzio. I palazzi che ci sono, sembrano lontani. Come i due fronti di edifici, dalla forma compatta, che perimetrano su due lati l’area a verde. Poco distante ci sono gli scheletri affiancati dalle gru e i profili compiuti dei 12 palazzoni a nove piani delle Terrazze del Presidente, il complesso ancora in costruzione che promette molto. Da quel che si può vedere più di quanto potrà realmente offrire.
Un viale mattonato avanza nel parco, preceduto da uno slargo. Panchine di legno, rotte. Cestini per la raccolta dei rifiuti, pieni oltre la capacità. Sembra da tempo. Considerando che anche a terra si sono accumulate lattine e cartacce. In compenso i lampioni fanno luce. Almeno qui. Dal momento che procedendo in leggera salita sul passaggio pedonale, ce ne sono diversi che hanno le lampade fuori uso. Ci sono anche gli alberi. Due grandi eucalipti, affacciati quasi su via Chessa e poi, soprattutto olivi. Oltre a qualche cerro e a diversi cespugli di alloro. In terra non c’è prato inglese, ma erbe spontanee. La cui altezza dipende soprattutto dalla stagione. Più che dalle cure alle quali lo sottopongono quasi esclusivamente gli abitanti della zona riuniti in associazioni. Qua e là, lattine, e bottiglie di vetro, buste di plastica e fazzoletti di carta, insieme a rifiuti di ogni tipo.
Qualche anziano, accompagnato, passeggia. Qualche altro si siede, dove può.
Ad interessarsi di un pezzo della storia antica di quest’area, prima che vi piombassero gli immobiliaristi, soltanto alcune associazioni locali. Tra cui una che nel 2008, per sollecitare gli organi competenti, organizzò un sopralluogo al sito. Non solo. Presentò anche un esposto alla magistratura. Da quel che si vede, senza grandi risultati. Così senza seguito sono stati anche alcuni articoli apparsi su quotidiani nazionali nei quali si denunciavano le condizioni del sito.
L’area archeologica c’è. Sta lì, senza mostrarsi. Quasi ignota. Sostanzialmente confusa nel verde spontaneo. Contribuendo, inconsapevolmente, al degrado del parco. Completamente persa la valenza che avrebbe dovuto avere. Quella di elemento distintivo ed identificativo di un luogo nel quale a segnalarsi non sembra essere l’architettura. L’esito, invece, opposto. L’immagine che piazza Omiccioli restituisce lontanissima dalle aspirazioni del progetto. Non luogo di condivisione e aggregazione. Non spazio per ritrovarsi. Una piazza che ha fallito la sua missione. Sembra piuttosto di essere proiettati nelle piazze metafisiche dipinte da De Chirico, come Piazza Souvenir d’Italie, nelle quali ogni cosa sembra bloccata nel tempo e i resti di edifici greci e romani fanno da quinte alla scena principale.
In fondo in quest’angolo di Roma, nel quale l’urbanistica dissennata degli ultimi decenni ha esercitato malamente sé stessa, accade proprio questo. Che l’archeologia si faccia metafisica Che la villa romana sia solo un elemento della rappresentazione del paesaggio. A quanto sembra il più trascurabile.