Mentre ancora si parla di indulto e amnistia, l’Italia spende un miliardo all’anno per tenere nelle patrie galere detenuti stranieri che in buona parte potrebbero scontare la pena nei loro paesi d’origine. Il piano è pronto da decenni. Gli accordi per lo scambio ci sono, multi e bilaterali, stretti con quasi tutti i Paesi del mondo. Ma nessuno incentiva questo strumento per svuotare le carceri e i detenuti trasferiti, alla fine, sono così pochi che non vengono neppure conteggiati nelle statistiche sulla giustizia italiana. Percorrendo tutte le vie “ufficialissime” dei ministeri competenti – Interno, Giustizia ed Esteri – è materialmente impossibile avere un dato su quanti abbiano usufruito di questa possibilità e diritto, come prevede la convenzione di Strasburgo del 1983, che l’Italia ha ratificato e inserito nel proprio ordinamento dal 1989 e via via allargato con una serie di accordi bilaterali.
Una beffa. Perché questa strada avrebbe potuto, almeno sulla carta, segnare la svolta sulla questione carceri prima che diventasse emergenza nazionale. Lo dicono i numeri. Nelle celle italiane, secondo i dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), si contano oggi 22.770 detenuti stranieri, un terzo della popolazione carceraria. Tanti, troppi. E ci sarebbero motivi di mera convenienza, oltre che di civiltà, per incentivare a diminuirne il numero. Il costo medio per detenuto calcolato dalla Direzione bilancio del Dap è di 124,6 euro al giorno. Lo Stato, nel 2013, spenderà dunque 909 milioni di euro, quasi un miliardo l’anno. Ma quanto risparmierebbe se desse seguito agli accordi di rimpatrio? Per saperlo bisogna moltiplicare quel costo unitario per i 12.509 detenuti stranieri che scontano una condanna già definitiva, i soli sui quali può ricadere l’ipotesi di un trasferimento. Il costo reale del mancato rimpatrio, o se si vuole il conto del risparmio virtuale, arriva dunque a 568 milioni di euro l’anno, un milione e mezzo al giorno. Un bella cifra nel conto dello Stato che potrebbe essere destinata a costruire nuove strutture, ammodernare quelle esistenti, incentivare forme di rieducazione e reinserimento. Per contro, i detenuti italiani all’estero non superano le tremila unità. Una differenza che rende evidente quanto il saldo degli “scambi” sarebbe a favore dell’Italia (e degli italiani). “Non si possono fare deportazioni di massa”, ammoniscono gli esperti di procedura penale, mettendo in guardia da operazioni di macelleria detentiva.
Ma a chi oppone a ogni ragionamento questioni di ordine etico-morale va ricordato che dal 2002 nessuno ha sbarrato la strada ai voli di Stato per il rimpatrio dei clandestini che la Bossi-Fini ha reso – almeno per le modalità operative – del tutto simili alla deportazione coatta, per di più espulsi non per aver commesso un reato penale ma amministrativo (l’ingresso in Italia senza permesso di soggiorno o contratto di lavoro a supporto del reddito). Idem per il reato di clandestinità introdotto nel 2009 col decreto sicurezza. Ci sono poi ragionevoli argomenti per ritenere che in quel terzo di popolazione carceraria composta da stranieri ci possa essere chi preferirebbe – vista anche la condizione dei penitenziari nostrani – ricongiungersi ai propri parenti e scontare la pena nel proprio Paese. Peccato che non succeda mai, salvo rarissimi casi. A 24 anni dalla convenzione di Strasburgo gli accordi sul trasferimento sono rimasti lettera morta, con buona pace del tempo e delle risorse che l’Italia ha dedicato per dibattiti parlamentari, mandati esplorativi di funzionari della giustizia, riunioni e servizi d’ambasciata da una capo all’altro del mondo.
Il paradosso degli accordi all’italiana – Il paradosso è che incentivare lo scambio e la detenzione all’estero non sarebbe una politica di destra o di sinistra ma di buona amministrazione, per di più ancorata e supportata nella sua applicazione da convenzioni e accordi. Con alcune bizzarrie e illogicità di fondo, però. L’Italia, si è detto, ha aderito alla convenzione di Strasburgo dell’83 insieme a 60 Paesi (gli ultimi sono la Russia e il Messico nel 2007). Ha poi stretto accordi bilaterali con altri sette che erano rimasti fuori dalla convenzione. Ma – attenzione – non con quelli che più pesano sul conto delle carceri. Ricapitolandoli: nel 1998 abbiamo firmato un accordo con l’Avana quando i detenuti cubani sono una cinquantina e poco più, nel 1999 con Hong Kong a fronte di popolazione carceraria prossima allo zero, nel 1984 con Bangkok (ancora oggi si contano due soli detenuti thailandesi). Mancano all’appello, per contro, proprio i Paesi che per nazionalità affollano maggiormente le nostre celle: il Marocco, su tutti, visto che con 4.249 detenuti occupa il secondo posto nella classificazione delle presenze straniere (18,7%). La Romania che occupa il secondo con 3.674 detenuti (16,1%). La Tunisia, al terzo posto, con 2.774 (12,2%). Altri sono pronti da vent’anni, ma per l’inerzia del Parlamento restano lettera morta. Emblematico il caso del Brasile, dove l’accordo è firmato e manca solo il passaggio in aula. Siamo riusciti invece ad accordarci con l’Albania (2.787 detenuti, 12%). Quando è stato sottoscritto, nel 2002, nelle carceri italiane c’erano 2.700 detenuti albanesi, di cui 960 condannati in via definitiva. Trecento dovevano scontare una pena residuale superiore ai tre anni e sarebbero stati i primi a lasciare l’Italia per scontare la pena nelle patrie galere. Un modello che doveva essere, secondo il Guardasigilli di allora Roberto Castelli, esportato in Marocco, Algeria e Tunisia. Cosa mai avvenuta, a distanza di un decennio. Ma quanti albanesi sono stati poi trasferiti? Impossibile saperlo, come per tutti gli altri detenuti stranieri in Italia.
Il mistero sui numeri: “Non abbiamo il sistema informatico” – I trasferimenti autorizzati sulla base di quegli accordi sono irrilevanti al punto che non vengono neppure monitorati a fini statistici. Sapere quanti siano è un’impresa impossibile. Le interrogazioni parlamentari sulla questione non hanno mai avuto risposta e anche per le fonti giornalistiche la strada porta dritto a un muro di gomma che fa rimbalzare da un ministero all’altro. Dovrebbe averli il ministero degli Interni ma non è così. “Sono numeri molto modesti a fronte di procedure complesse, per questo non sono sottoposti a monitoraggio statistico e vanno a finire nelle diciture “altro” degli annali giudiziari”, premettono imbarazzati i funzionari del Viminale. “Il detenuto fa domanda al direttore del carcere che la gira al magistrato di sorveglianza che fornisce il suo giudizio e lo trasmette al ministero. Dovrebbero però averli al ministero di Grazia e Giustizia che amministra le pene”. Ma si bussa lì senza maggior fortuna. Il direttore dell’ufficio Affari penali Antonietta Ciriaco fa sapere che il suo ministero non ha neppure il sistema informatico necessario a estrapolarli quei dati, che non si tratta di estradizioni, per cui “una volta che c’è l’accordo internazionale e una sentenza favorevole della Corte d’Appello al trasferimento, è materia del Dap”. Ma anche al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria cadono dalle nuove. “Noi abbiamo solo dati rispetto a detenzione e scarcerazione, questa storia di chi ha i dati sui trasferimenti va avanti da anni e alla fine le richieste arrivano sempre qui, ma noi non li abbiamo. Avete provato al ministero degli Interni?”. E si ricomincia.
Il saldo delle carceri: 20mila restano, 200 (forse) vanno
Qualche barlume, alla fine, illumina almeno il passato. A margine di uno dei tanti trattati bilaterali il ministero degli Interni nel 2008 fornì, con parsimonia, qualche cifra: nel 2005 il trasferimento delle persone straniere condannate è stato pari a 216, 46 nel 2006, 111 nel 2007 e 87 nel 2008. Si presume che da allora le cose non siano cambiate e che a prendere la frontiera per la carcerazione all’estero siano grosso modo un centinaio di detenuti all’anno. Numeri che rendono bene l’idea di come siano stati tradotti nel nostro Paese la convenzione di Strasburgo e tutta la congerie di accordi bilaterali che negli ultimi vent’anni sono stati annunciati, sottoscritti e celebrati in pompa magna tra convegni, delegazioni e voti in Parlamento.
Alla fine del giro tocca chiedersi anche se la resistenza a fornire dati sul trasferimento – insieme al disinteresse per tracciarli, recuperarli e renderli pubblici – sia del tutto casuale, il frutto accidentale della sovrapposizione di competenze e burocrazie, o se sotto ci sia altro. Il sospetto è che non vengano divulgati perché la loro stessa inconsistenza sarebbe fonte d’imbarazzo per le istituzioni italiane. Rivela come per vent’anni lo stesso ceto politico che alzava la voce sull’emergenza carceri non è stato capace di utilizzare lo strumento del rimpatrio per alleggerirle. Ancora oggi, del resto, sembra baloccarsi con fantomatici “piani carceri” per i quali non riesce a reperire le risorse e alla fine – messo con le spalle al muro dalla condizione ipertrofica delle celle – si affida all’unico “svuotacarceri” che non comporta costi diretti: un atto di clemenza che consenta alla politica di non fare i conti con la propria storica inerzia. E poco importa se amnistia e indulto alimentano il senso di ingiustizia tra i cittadini incensurati.