Nel destino senza storia di uno scambio di vocale, la prima vittima di Checco fu il professor Chicco: “Un culturista cinquantenne di due metri con il parrucchino rosso. Bonario e inoffensivo, ma fascista, anzi fascistissimo”. Insegnava filosofia al Liceo Scientifico Sante Simone di Conversano, propagandava il verbo: “Lasciando scivolare distrattamente sul banco i volantini dell’Msi” e ogni tanto, per la gioia dell’imitatore Pasquale Luca Medici: “Mi chiamo come mio nonno, capostazione, sosia di Terence Hill e convinto mignottaro”, si infiammava davvero. “Al professore che era molto simpatico, una mattina fecero i tufi. Per pigrizia dialettale, quando ti fottono le ruote della macchina mettendo 4 pietre a sostenerla, da noi si dice così. Non gli avevano lasciato neanche il cotto. I mattoni, come pure qualche ladro gentiluomo faceva. Lo vedemmo arrivare. Incazzato nero, sudato, stravolto. Io presi nota, come ho sempre fatto”.
Tra 72 ore, nella misura dei sogni fantozziani e mostruosamente proibiti che da ragazzo studiava sacralmente e che oggi saprebbe recitare: “parola per parola”, Checco Zalone approderà ovunque. “Sole a catinelle”, il suo terzo film girato da Gennaro Nunziante, prodotto da Pietro Valsecchi e Camilla Nesbitt per Taodue e distribuito da Medusa nell’inaudita formula delle 1.300 copie, aspetta di sapere se il record del precedente, l’incasso italiano più alto di sempre, sarà superato. Nell’attesa, con le Clarks ai piedi: “Me le sono messe per voi del Fatto, dovete esservi drogati molto per chiedermi un’intervista” occhiaie profonde, cera rivedibile ed endemica febbre dell’antivigilia, Checco finge che sia una bella giornata. Beve birra, fuma, risponde a uno squillo di De Gregori, strimpella il Dalla di “Disperato erotico stomp”, addenta un panino e si dispone quieto alla tortura dell’intervista: “A un carattere ansioso aggiungo l’intensa sfiga della mia condizione. Ho fatto fare i soldi e sono condannato a farne fare sempre di più. Detesto gli artisti che fanno finta che non contino. La prima volta che ho visto un set mi è preso un colpo. 70 persone, 70 famiglie, 70 bocche da sfamare. A qualsiasi uomo di coscienza il dubbio verrebbe: ‘Chi cazzo li paga questi qui?’.
Ora contribuisce lei.
So che arriverà il giorno in cui non mi riconosceranno più e finalmente avrò una buona ragione per stare in ansia. Ma ‘sta storia del successo sarebbe meno angosciante se almeno riuscissi a godermelo. Invece sono un coglione e soffro. Leopardi rispetto a me era un ottimista. Si rende conto che se “Sole a catinelle” fa 20 milioni di euro grideranno al flop? Ma siamo pazzi? Per tutelarmi ho scommesso con il produttore. Io ho detto una cifra, lui ha rilanciato. Vedremo.
Anni fa ragionare così le sarebbe stato impossibile.
Il colpo di culo che mi ha cambiato la vita è stato il provino di Zelig. Cantante neomelodico, cafonissimo, in scena con una tremenda maglietta rosa aderente. Sul palco faccio un numero che a Bari ripetevo spesso e non faceva ridere nessuno: “Un bacione alla casa circondariale di Trani con gli auguri di una presta libertà”.
Reazione?
Un trionfo. Mi gaso e in piena immedesimazione, quando il comico Cremona mi invita a cantare al pianoforte, gli faccio segno di spostarsi: “Vattenne, chista è roba mia”. Gino e Michele mi prendono da parte: “Che fai nei prossimi mesi?”. “Ho la pratica per diventare avvocato”. “Annulla tutto, non prendere impegni per un anno”. Un sogno.
Tutto facile?
A Zelig servivano molti pezzi e io comincio a fare avanti e indietro tra la Puglia e la Lombardia, mantenuto dai miei e senza una lira in tasca, per sostenere i provini. Il 23 luglio del 2004 dopo essere sceso dal Milano-Bari in un giorno di caldo infernale, zanzare e bestemmie, trovo mio padre: “Mò mi hai rotto i coglioni, non c’ho più soldi, sto andando sotto in banca, falla finita”. Imbarazzatissimo, vado dal produttore: “Non posso più venire”. Senza fiatare, mi stacca un assegno da cinquemila euro. Mi sembrò Dio. Chi cazzo li aveva mai visti cinquemila euro? Ne prendevo 50 a serata per fare il piano bar, mi pagavo la benzina e a volte mi toccava vestirmi pure da babbo Natale.
Anche il protagonista di Sole a Catinelle vive di travestimenti. Sintetizza lei?
Papà sfigato, bugiardo, pieno di debiti, inseguito dal mito di Berlusconi come da Equitalia, promette al figlio una vacanza da re in cambio di una superpagella scolastica. La pagella arriva, è piena di 10 e il padre prova invano a corrompere la maestra. Le spiega che il bambino è un pezzo di merda, un mascalzone, prova a fargli abbassare la media e non riuscendoci, in uno slancio di di ottimismo contro la crisi che ci attanaglia, carica la macchina, fa salire il ragazzino e punta verso il Molise. Il viaggio di piacere si rivelerà sorprendente.
Esempi?
Arrivano in un tugurio. Il padre sorride mieloso al bambino: “È bellissimo qui, vedi cosa sono quei segni sui muri? È zona sismica. Ti-ti-ti-ti. Dai che ci divertiamo”.
Scorretto.
La storia è molto semplice. Il mio personaggio è un vero bastardo. Potevamo facilmente scadere nella retorica e nel moralismo, disegnare come da copione i poveri buoni e i ricchi cattivi. Abbiamo preferito mostrare un disgraziato che si mostra più stronzo dei ricchi, ambisce solo ad assomigliargli e alla fine, diventa peggio di loro.
Ci ha lavorato per due anni- dicono -con un perfezionismo maniacale.
Non è vero, se fossi un perfezionista farei cose perfette. E non accade. La verità è che invidio Crozza. La capacità di creare personaggi settimanalmente. Per le mie cagate, per scrivere tre minuti di canzone, impiego mesi. Non è che mi venga spontaneo. Quando annuso la preda devo studiarla. Quando l’ho studiata, devo combattere con i dubbi. Quando imitai Saviano, limai ogni singola parola. Lui mi scrisse, apparentemente divertito. Non sono sicuro fosse sincero. Però la mail l’ha mandata.
Nel solco del “Ve lo meritate Alberto Sordi”, qualcuno sostiene che ci meritiamo Checco Zalone.
Se esiste un punto di contatto tra me e Sordi, sta nel non puntare il dito, dare lezioncine o salire in cattedra. Nel provare a far affezionare il pubblico. Ai suoi personaggi riesci a voler bene anche nel cinismo e nella bassezza. Li scopri umani. Deboli. Volgari. Esattamente come te. Vorrei riuscire a fare lo stesso. Detto questo, di fronte a Sordi mi sento una caccola.
Lei l’attore non voleva neanche farlo.
Anni prima che con la sua voce che trasudava opulenza al solo suono mi contattasse il mio produttore: “Sono Valsecchi” e io e Nunziante, come Totò e Peppino, lo raggiungessimo in montagna vestiti come a Bari in agosto, l’idea di fare il comico mi venne in chiesa. L’ispirazione iniziale me la diede il parroco di Capurso, don Franco. Dedicò un’omelia all’allenatore di calcio del paese. Spiegò che lo spirito conta più del corpo e gesticolando, un po’ ridendo e un po’ piangendo, si fece prendere la mano:“E questo si muoveva e adesso non si muove più. E questo correva e adesso non corre più. Lui c’era e ci illuminava e adesso niente, niente, niente solo silenzio”. Dai personaggi di Capurso, l’appendice di Bari in cui vivo, ho preso e rubo ancora spunti.
E a Capurso vive ancora.
Roma mi fa un po’ mi fa paura. Ci sono il Fatto quotidiano e Dagospia. A Capurso non sanno neanche cosa siano. Il massimo della locale evoluzione che pure è un’evoluzione non da poco, è Youporn. Comunque piano piano mi sto emancipando. Ho comprato una casa a Bari, la ristrutturazione va avanti da due anni e prima o poi ci andrò.
Rimanere in Puglia è una scelta di vita?
Non so sia inerzia oppure solo ozio. Di solito la vita ha ragioni molto più semplici. La mia compagna, Mariangela, viene da lì. Abbiamo una figlia di 8 mesi, Gaia e mia suocera che la accudisce. Quindi tutta questa poesia che dice lei, un po’ viene meno. Poi i baresi si considerano i migliori del mondo, non ti filano per partito preso e a Capurso ho già finito il giro delle fotografie. Ho pazientemente posato per chiunque e adesso sono un emarginato. Posso ancora cucinare le salsicce e sudare in mezzo al fumo senza che mi rompano i coglioni.
Aspira alla normalità?
Io sono normale. D’estate, con gli amici di sempre, abbiamo fatto una festa a Putignano. C’erano delle ragazze di Bari. Una si stupisce, passa vicino alla griglia e un po’ schifata, mi fa: “Che brutta fine che hai fatto”. Non aveva capito che non desideravo altro che stare in costume, bere birra e arrostire bistecche.
Le pesa la scissione tra Luca Medici e Checco Zalone?
È uno scudo bellissimo, la gente mi ferma per strada, mi chiede di fare Checco e io faccio Checco. Il problema è quando vorrebbe prevalere Luca e devi continuare per forza a interpretare Checco. Luca è più timido, ha i cazzi suoi, le sue ansie e quando incontra un maleducato vorrebbe riservargli un liberatorio vaffanculo.
Ne incontra tanti?
Il pubblico è affettuoso, ma ci sono quelli che superano il limite e ti passano la figlia via telefono, quelli che ti abbracciano e ti chiedono come ossessi: “La foto, la foto, la foto”. Allora ho capito che mi conviene fare Checco anche in quei casi. Li mandi ‘affanculo esattamente come farebbe lui e loro ridono. Sono contenti. Si sentono soddisfatti.
Che cozzalone, in barese, significa “che tamarro”.
La scelta definitiva del nome: “Sennò la gente poi se confonde e non è il caso” me la consigliò Maurizio Costanzo. Il modello fu invece “Toti e Tata” di Nunziante con Solfrizzi. Il barese che considerava il furto come regola e superare la terza media, uno sfregio alle tradizioni familiari. Il meridionale con i vizi tipici dei meridionali. A mio modo, facevo lo stesso. Con i miei amici rielaboravamo la Capurso di tutti i giorni. Osavamo, storpiavamo da criminali Pasolini, ci divertivamo. Scritti corsari diventava scritti cozzali e poi all’appuntamento settimanale con l’osservazione del mondo, sperimentavamo sul palco del Liceo-Show di Conversano.
Compagni di classe?
Mi stavano quasi tutti sul cazzo perché erano troppo bravi. A eccezione di Giuseppe De Bellis che ora è diventato vicedirettore del Giornale, con il quale condividevo il terrore per il professore di matematica, Lacalandra. Ci rimandò entrambi. Eravamo due cani. Due cani terrorizzati. La sofferenza per calcolare il punto medio, una puttanata che proprio non riuscivo a capire, me la ricordo ancora.
Follie dell’epoca?
Ero disciplinatissimo. Mi teneva sotto Zia Lina, vicequestore con esperienze nella Buon costume. A casa, era l’unica ad avere uno stipendio vero. Mi ha pagato tutti gli studi. Per le medie scelse il Cirillo di Bari. Semiconvitto per soli maschi, tristissimo. I miei amici giocavano a pallone, io rimanevo tra i banchi fino alle 18. Ci andavo in pullman. Una mattina mi addormento e mi risveglio ad Andria. Mi viene a prendere mio padre, incazzatissimo. Affronta Lina e la manda a fare in culo: “Il ragazzo torna a Capurso con gli uastasiddi”.
Gli Uastasiddi?
I briganti. Dopo aver perso la battaglia del Cirillo, Lina si rifece con Conversano. Il Liceo era a chilometri da casa, ma secondo lei a Bari non potevo studiare: “A Bari sta la droga”. In realtà di droga ce n’era tantissima anche a Conversano e nel giro dell’intellighenzia capursese, le canne se le facevano tutti. Io no, quella è una cosa che impari da piccolo. Mi sto impegnando ma non mi piace. (Ride)
Lei è laureato in Giurisprudenza.
A Bari. L’unica città al mondo in cui ci sono più avvocati che cittadini e dove ho scoperto il genere femminile iscrivendomi al Cepu. Corso accelerato di figa, per recuperare tutto quel che per 10 anni avevo solo immaginato. Altra medaglia di zia Lina che negli ultimi anni, accudì anche il nonno capostazione, Pasquale. Lo sfacciato, a 75 anni, si era comprato un’enorme Opel Omega. Andava in giro a trombare e tornava a casa felice. Gli dicevo: “Nonno, guarda che un’auto così alla tua età non la puoi portare più”. Il giorno dopo non gli prende un ictus?
E la macchina che fine fece?
La guidai io, dal giorno stesso, con tanti ringraziamenti al nonno. (Ride)
Diceva del suo particolare Cepu. Poche ragazze al liceo?
Nel mezzo di un autogrill, in gita scolastica, per far colpo su Bianca Guaccero che era stupenda, non conoscevo e non ho mai più incontrato in vita mia, scendo dal pullmann, uso una scopa come microfono e mi lancio nell’imitazione di Walter Nudo in “Colpo di fulmine”. Lei faceva la timida. Non me la diede allora e inutile dire, non me l’avrebbe data mai più.
Luca Medici è anche figlio d’arte?
Papà, venditore di medicine, aveva la passione per la musica, ma gli mancava il talento. Con una serissima band di 7 elementi, a 12 anni, lo accompagnavo a suonare per veglioni. Ero il più bravo di tutti, anche di lui. I Dik-dik, l’Equipe 84, Paul Anka, Morandi, Celentano. La mia cultura musicale è un’eredità paterna da cui a un certo punto, con le palle sfrante, mi liberai per fare altro.
Celentano però lo imitava già a 6 anni.
Se è per questo da bambino sognavo di fare il jazzista e mi sento molto più musicista che attore. Cantavo 24mila baci davanti allo specchio, con l’abito della prima comunione. Ero e sono innamorato di Celentano. È fortissimo, anche nella retorica. Gliela perdoni perché diciamocelo, se chiunque altro prova a dire quelle puttanate e non si chiama Celentano, ti viene voglia di ucciderlo. Ma lui ha quella cosina che si chiama carisma e a 75 anni, sa usare perfettamente il Protools. Le banalità, se le pronuncia Adriano, diventano un’altra cosa.
Celentano si schiera. Lei no.
Sono totalmente agnostico. Lo giuro. Non so se è mancanza di strumenti per valutare o credere, o magari solo una posizione di comodo. Ma non ne soffro. Non ho mai sposato nessuna fede politica. Forse sono irrisolto. Forse, più probabilmente, non me ne frega niente.
Ha cenato con Grillo, parodiato De Andrè per raccontare l’incontro tra Berlusconi e D’Addario, imitato Vendola.
Sapevo fare bene anche Fitto. Un burocrate appassionato di decreti leggi, commi e postille. Quando sbagliava una data, gli arrivava una sberla della madre e lui piagnucolava: “Scusa mamma, scusa”. Per me la politica è solo un pretesto. Siamo operai della presa per il culo e se devo smontare il mito, colpisco chi va per la maggiore. Sparare sulla Croce Rossa non ha senso.
Quindi chi punta?
Renzi e non Berlusconi. Non mi interessa più e dovrebbe risultare indifferente a qualsiasi comico. Gli piacciono le donne, gli piacciono molto. L’abbiamo capito.
Con la D’Addario lei non fu lieve.
Il verso “ci sono altri mille euro se ti giri” qualche casino in effetti lo creò. Canale 5 decise di mandare in onda tutto. E fece bene. In ogni caso a Berlusconi dobbiamo il più grande pezzo televisivo del decennio. Nello studio di Servizio Pubblico, a dare spettacolo, lui c’era.
Il suo rapporto con la critica?
Se adesso vado in tv e dico mezza parola c’è il commentatore di turno, il Bernardini della situazione che parte con la fenomenologia di Zalone. È un dazio che devo pagare. Il mio primo detrattore del vostro giornale, Andrea Scanzi, mi ha fatto male. Ma non lo condanno. Chiaro che se gli viene un attacco di peritonite acuta e resta a letto per un mese, non posso che essere contento.
Dove si vede domani Checco Zalone?
Lontano dal Mulino Bianco, perché il politicamente corretto mi annoia e non riesco a rimanere distante dalla comicità. Spero che la vena non si esaurisca, ma ammetto, il problema me lo pongo. Diventerò mai un attore al servizio di un regista drammatico che magari sogna di cambiarmi? Me l’ha chiesto Virzì, è stato gentile, ma ho detto no. Se ci penso mi sento male. Se ci rifletto sul serio, cambio mestiere domani.
da Il Fatto Quotidiano del 28 ottobre 2013