L’anno di grazia 2013 segnerà un evento storico. Secondo i dati aggregati dal Fondo Monetario Internazionale, per la prima volta in oltre due secoli il Pil delle economie emergenti (classificazione peraltro obsoleta) supererà il 50 per cento del Pil mondiale calcolato a parità di potere di acquisto delle valute nazionali. Nel 1990 la quota del Pil mondiale attribuita ai paesi emergenti era meno di un terzo, quindi è lievitata annualmente di circa un punto percentuale per effetto di quel fenomeno che si definisce sinteticamente globalizzazione.

L’insieme delle economie ancora, impropriamente, indicate come sviluppate, arretra di fronte all’ondata demografica asiatica (a rinforzo della quale sta montando quella africana). Il McKinsey Global Institute stima che esse hanno creato tra il 1980 ed il 2010 circa 160 milioni di posti di lavoro non agricoli, mentre nei paesi emergenti se ne sono creati 900 milioni. Ma demografia a parte, il sorpasso si alimenta anche di capacità tecnologiche in paesi come la Corea del Sud, Taiwan o Israele (per non menzionare la solita Cina) che dominano in settori di punta dall’elettronica di consumo all’informatica. Centri finanziari si solidificano in posti, un tempo esotici, come Singapore, Hong Kong, Shanghai, Dubai, Doha e persino Mauritius. Questo secolare spostamento del baricentro economico ha travolto l’Italia, che dei paesi maturi è quello in più rapido e, secondo molti, inesorabile declino. Secondo i recentissimi dati del Fmi nel-l’ultimo World Economic Outlook, se si considera il Pil in dollari correnti, il Belpaese già nel 2010 era stato superato dal Brasile e nel 2012 ha ceduto una posizione anche alla Russia. L’aspetto devastante del fenomeno, oltre all’ampiezza, è stata la rapidità: nel 2005 Russia, Brasile e India avevano un Pil di entità grosso modo uguale e pari alla metà di quello italiano. Oggi anche l’India che è rimasta indietro negli due ultimi anni ci tallona da vicino. Certo va ricordato che i dati sul Pil non sono una misura esatta delle dimensioni e del dinamismo di un’economia e tantomeno del benessere in senso lato. Il Pil è una stima approssimativa (per usare un eufemismo) ed esiste un ampio ventaglio di accorgimenti più o meno elaborati per addomesticare i calcoli. Pertanto sulla precisione dei confronti internazionali non scommetterei la pensione (nemmeno una, alquanto aleatoria, dell’Inps), ma l’incrocio tra il declino, soprattutto europeo, e l’esuberanza dei nuovi protagonisti sul palcoscenico mondiale è ineluttabile. L’implicazione grave – al di là dell’appartenenza al G8 o al G20, che sono delle vestigia di riti stantii celebrati su altari di cartapesta – sono gli smottamenti sempre più traumatici, il tenore di vita e le aspettative delle generazioni presenti e future. Infatti chi spera che le fasi successive del declino per un paese dagli arti anchilosati e il cervello congelato siano graduali si illude. Lo sgretolamento si verifica in punti diversi con intensità diversa.

Così in questa Italia, dove il massimo dell’aspirazione collettiva vagheggia l’impossibile ritorno al boom drogato di debito vissuto negli anni 80 o addirittura aspira al harakiri del ritorno alla lira, il dato macroeconomico astratto si materializza come un tarlo che erode le vite dei singoli. Anche nelle trincee dove si riesce a mantenere un lavoro, ci si troverà comunque a contendersi una torta sempre più esigua con un numero sempre maggiore di aspiranti. Anche i migliori potranno al massimo difendere posizioni acquisite, mentre l’asticella dell’ingresso al mondo del lavoro o alla vita che un tempo si considerava normale sale verso l’alto. Per i fortunati il retrogusto dell’agiatezza si può ancora assaporare intaccando i patrimoni accumulati da padri e nonni. Per gli altri è un tunnel foderato di incertezze. Non è certo una sorpresa se l’espatrio – sia per gli individui che per le imprese – emerge nitidamente come l’unico scampo. Ma per quanto se ne parli ad libitum, sono trascurabili i numeri di quelli in grado di cavarsela in un altro paese parlando perfettamente una lingua straniera, in un sistema che conoscono poco e senza punti di appoggio. Si tratta di decine, al massimo centinaia di migliaia di persone contro i milioni di disoccupati, cassintegrati, scoraggiati e inoccupabili.

Da Il Fatto Quotidiano, 27 ottobre 2013

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