Trentasei settimane, contrazioni aumentano con il passare delle ore, alle 21 sono al Policlinico collegata al monitoraggio. Mi ricoverano. Nessun posto disponibile, resto sulla barella in anticamera con tre partorienti. L’infermiera in romanesco chiede immobilità alla ragazza avvolta nel chador. Parla solo arabo, porge il cellulare sorridendo per farsi tradurre la situazione. “A Naima, te pare che devo parla’ al telefono”. Una quarta donna piange, al mattino partorirà un corpo senza vita, crudele abbandonarla tra l’attesa di vagiti che un giorno non la chiameranno mamma. Ci confortiamo tra noi fino all’alba, protette da una quieta solidarietà sostenuta dagli sguardi. Poi Naima si alza per inginocchiarsi verso La Mecca.
Nuovo monitoraggio. Percepisco contrazioni forti, la macchina non registra e nessuno mi crede. Pratico e insegno yoga, controllo il dolore, ma sento che la situazione peggiora. “A casa!” ripetono i medici. Ho imparato a riconoscere i segnali del corpo, quindi resisto alla tentazione di andare cercando di spiegare a questi signori che non sono pazza. Mantengo calma integrale: “Capiteranno donne con falsi allarmi, non è il mio caso”. Sguardi ironici “non sembra in travaglio”. Certo, dovrei urlare e contorcermi, invece di ripetere regolari respiri cercando nella mente pensieri felici. “Lo so, è una mia caratteristica, poi la meditazione…”, insistere non fa altro che renderli più beffardi. Non sono un’invasata new age, ho un approccio scientifico, schivo verità preconfezionate; dettagli inessenziali.
Dopo ore, quando temo mi buttino fuori di forza –pur detestando i sistemi dell’italietta del nonsachisonoio– riferisco che ho anche l’altra identità di scrittrice. Guadagno credibilità e ancora tempo. Ma sono pur sempre una donna in preda agli ormoni, quindi dal punto di vista maschile un’isterica delirante. Sopraggiunge un’ostetrica attirata dal trambusto “quella è la macchina rotta!non fa contatto”. Silenzio. L’imbarazzo paralizza le espressioni. L’infermiera improvvisa un collegamento con lo scotch. Chiedo una nuova macchina. Subito disegna potenti contrazioni. Il cesareo diventa urgente. Se avessi obbedito all’ordine perentorio di lasciare l’ospedale cosa avremmo rischiato io e il mio bimbo? Il collo dell’utero serrato (impenetrabile da una cannula di due mm) impediva un parto naturale. Allontano dalla mente l’indignazione per concentrarmi sulla nascita di mio figlio, determinata a rendere con l’amore quegli istanti incantati. Accolgo tutto, persino la ragazza che non riesce a iniettare l’epidurale infliggendomi inutili buchi sulla schiena.
18.28: il primo vagito di Lorenzo è l’essenza della vita. Pochi secondi con lui, poi mi abbandonano in corridoio, solo all’una di notte mi assegnano un letto. Finalmente posso rivedere e allattare Lorenzo! L’ostetrica lo lascia nella culla, non riesco ancora a sollevarmi, il cesareo disconnette gli addominali, le chiedo la cortesia di aiutarmi: “io porto solo i bambini”. Guardo mio figlio impotente. Sopraggiungono dolori insopportabili, da urlare, e sono la stessa donna che ha affrontato il travaglio sorridendo. Non canalizzo, sono gonfia, intestino e utero bloccati. Mi aiutano alcune specializzande, eseguendo un primo intervento meccanico indispensabile per evitare infezioni. All’assenza replicata dei professori si contrappone la presenza continua di queste ragazze piene di desiderio di imparare e rendersi utili. Vanno avanti anche per tre turni di seguito senza perdere gentilezza. Chissà se riusciranno a ricevere un meritato stipendio, sostituendo luminari troppo impegnati nelle cliniche di lusso per presenziare in ospedale. Speriamo riescano a defenestrare chi gli ruba il futuro.
Sono restata digiuna per mancanza di comunicazione tra medici e mensa. Per 18 ore è finita l’acqua da bere in tutto l’ospedale. Il mio latte scarseggiava; in dimissione il peso di Lorenzo era inferiore al normale calo fisiologico. Le ho provate tutte, non c’è stata altra strada che la temuta aggiunta. Le multinazionali del latte si insinuano negli ospedali e nei consigli dei pediatri, riescono con abile terrorismo occulto a far vacillare in un momento delicato anche le donne più consapevoli. Per un’appassionata della Lega del latte, Montessori e Dolto, frustrante veder contravvenire le minime regole. I neonati lontani dalle mamme soggiornano in un ambiente dove ricevono latte, cambi e visite. Neon e computer sempre accesi, riunioni di medici e infermieri. Tutto in 25 metri quadrati. In camera illuminazione accecante, bagno sporco, niente acqua calda. Solo al centro dei pavimenti una signora dedica pochi secondi con un vecchio straccio. Scarseggia tutto, chiediamo di portare ai familiari: necessario per il cambio, disinfettanti, cerotti, acqua, farmaci consigliati dai medici ma non disponibili. Niente soldi per l’indispensabile nel reparto maternità di uno dei principali ospedali di Roma, si materializzano per acquistare F-35. La politica della morte sconfigge quella della vita.
Intervistai Terzani per il mio libro Regaliamoci la pace: “I valori su cui possiamo metterci d’accordo vivono nel cuore di ognuno. Sono i più semplici. Esiste forse una civiltà che odia i bambini? È comune fare i bambini e amarli”. C’è stato un tempo in cui il nostro Paese amava i bambini, quel tempo è finito.
di Federica Morrone
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