Oltre 1250 copie in sala, gli oltre 45 milioni del precedente Che bella giornata sul groppone, ma l’ottimismo è il sale della vita, l’ansia da prestazione una pozzanghera, il Sole a catinelle. Checco Zalone è tornato, ancora per la regia dell’amico Gennaro Nunziante, la produzione Taodue, la distribuzione Medusa: forse, nessuno chiede a Luca Medici (il Checco all’anagrafe) di superarsi, ma 20, 30 o 40 milioni, quanto farà? Tanto, e il film lo merita: a differenza di tanti, altri “comici” nostrani, a Checco gli vuoi bene, gli auguri il meglio, ti fa tenerezza, anche quando – è questo il caso – interpreta “un uomo frutto di 20 anni di berlusconismo”.
Venditore di aspirapolvere in crisi nera e pure separato, Checco deve realizzare la promessa fatta al figlio Nicolò, enfant prodige nonostante il padre: “Se sarai promosso con tutti dieci papà ti regala una vacanza da sogno”. Quei dieci arrivano, i soldi no, dunque Checco porta Nicolò (Robert Dancs, bravissimo) dai parenti in Molise, nella speranza di unire l’utile – vendere aspirapolvere ai parenti – al, si fa per dire, dilettevole. Fortunatamente, Checco si ritrova a casa di Zoe (Aurore Erguy), una ricca ragazza radical chic ma dal cuore buono che lo trasporta in un mondo di party, yacht, golf e cavalli…
Più strutturato dei precedenti Cado dalle nubi e Che bella giornata, meno sketchato e velenoso (non ci sono più categorie sensibili, dai gay ai terroni & leghisti), Sole a catinelle nemmeno può contare sulle strepitose canzoni degli antecedenti, queste sono decisamente più banali, meno graffianti, ma il passo a due padre-figlio ai tempi della crisi offre uno sguardo acuto e amaro sul ventennio, intercettando fabbriche che chiudono, sogni a scomparsa e la felicità che, dice Checco a Nicolò, oggi trascolora Albano e Romina: è uno yacht più grosso, di quelli alla Roman Abramovic che ci parcheggi l’elicottero.
In mezzo al film, qualcosa va per le lunghe, qualche scena (il dejeneur sur l’herbe vegano, e non solo) non va, ma Medici e Nunziante sanno dirci del nostro oggi, come poeti tamarri, cafoni situazionisti, flaneur in canotta e ciabatte a passeggio sulle nostre macerie: dal regista impegnato che inquadra l’anoressia e lascia “muto selettivo” il figlio, dai furbetti del quartierino con vista sulle Cayman e Confindustria, dai prestiti che non si negano a nessuno e nessuno onora, dallo spauracchio dell’essere comunista ancora oggi “Della Che Guevara che cosa avete?”, al negoziante), fino al vuoto pneumatico e stolido dell’ottimismo a ogni costo, che la crisi non c’è, i ristoranti sono pieni e i consumi non vanno mortificati. Rateizzami l’Italian Dream.
Ecco, tra le battute, le gengive sollevate e il capro espiatorio appiccicato addosso, Zalone trova tra le nubi la nostra truffaldina, sterile bella giornata: il sole è a catinelle, ma siamo bagnati fradici, senza saperlo. Nulla è serio, tutto è grave, flaianamente, e nemmeno l’eutanasia si salva: dopo i Bellocchio, gli Haneke e compagni mortifera, Zalone guarda al Molise, fruga tra i parenti e trova l’eutanazia, lasciando la spina nel dubbio tra il risparmio energetico e il consumo dell’esistenza.
Certo si può fare meglio, ma Zalone è qui e ora la meglio cosa capitata di recente al nostro cinema da ridere: commedia dura e pura, financo all’italiana, con – vedi locandina – i padri sulle spalle dei figli, nani sui potenziali giganti a cui hanno già rubato il futuro. Zalone è Gulliver, l’Italia lillipuziana, il viaggio di papà e figlio non più Swift, ma uno swiffer sul nostro sporco. E la polvere stanca del nostro cosiddetto “cinema da ridere”.