Sembra impossibile, ma l’Italia ha ancora qualcosa da insegnare. Nonostante l’imperante ed apparentemente inesauribile cialtroneria di cui siamo ahimè capaci, in patria e all’estero, in Giappone c’è ancora qualcuno che ci rispetta, ci invidia, ci considera un modello. E se la fila di sommelier, ristoratori, importatori e imbucati vari che attendono di gustare i vini “eccellenti” del Gambero Rosso nei saloni del Ritz Carlton non è una novità – il settore enogastronomico, assieme a quello della moda, è quello che da sempre “tira” il nostro export, che quest’anno segna un attivo di 700 miliardi yen, oltre 5 miliardi di euro – sentire in un’aula del Parlamento un vecchio politico che ci riconosce come modello di civiltà perché abbiamo per primi abolito la pena di morte e perché continuiamo a fare di questa campagna uno dei pilastri della nostra politica estera, dà una qualche soddisfazione.
E’ successo in questi giorni a Tokyo, dove tra Fashion Week, “Tremila anni di vino italiano”, la Scala che ha appena concluso la sua ennesima, trionfale tournée ed il Teatro Regio di Torino che sta per arrivare assieme a mezza regione Piemonte, si è parlato, e neanche troppo sommessamente, di pena di morte. “Siamo grati agli amici italiani che con impegno e rispetto vengono a stimolarci, a ricordarci che il Giappone, da paese civile quale riteniamo di essere, non può continuare a figurare nell’elenco dei cattivi. E’ ora che di questo problema si parli apertamente, e che il nostro governo la smetta di trincerarsi dietro una presunta opinione pubblica contraria, compiendo un gesto di coraggio e di leadership politica, che evidentemente sin qui è mancata”.
Così Shizuka Kamei, 75 anni, ex capo della polizia noto per la sua risolutezza (guidava personalmente, negli anni ’60, le cariche contro gli studenti) da oltre trent’anni in Parlamento, prima come autorevole esponente della “Balena Gialla” (il partito liberaldemocratico, equivalente politico della DC) poi come leader del Nuovo Partito Popolare, una piccola formazione di centrosinistra. Dopo essere stato per molti anni convinto assertore della pena capitale, Kamei si è pubblicamente “pentito”, e da allora ha fatto della battaglia abolizionista la sua bandiera. Nel 2001 ha fondato, e presieduto fino a qualche mese fa, la Lega Parlamentare contro la Pena di Morte, associazione che nel frattempo, a seguito delle ultime elezioni, si è di fatto sciolta. L’occasione per ribadire il suo impegno gli è stata data dalla Comunità di Sant’Egidio, che anche quest’anno ha organizzato due eventi sul tema. Il primo presso l’Istituto Italiano di Cultura, lo scorso 29 ottobre, l’altro in una sala del Parlamento, il 31. In entrambi i casi sono intervenuti parlamentari, avvocati, giudici, artisti ed intellettuali. Oltre ad alcuni “simboli” di questa lunga e difficile battaglia: come Curtis Mc Carthy, assolto dopo 20 anni passati nel braccio della morta del carcere di Oklahoma, e la sorella di Hakamada, un ex pugile di Fukuoka, nel sud del Giappone, condannato in base ad una confessione estorta sotto tortura, che si professa innocente e che da 46 anni attende, nel braccio della morte, una revisione del processo. Un uomo che è diventato il simbolo dell’ingiustizia, della crudeltà e della cocciutaggine di un sistema penale antiquato e segnato da profonde lacune in merito alla tutela dei diritti della difesa e del condannato.
In Giappone la pena di morte, eseguita per impiccagione, in gran segreto e all’improvviso, senza avvertire né il condannato né gli avvocati né i familiari, è prevista per 18 reati. Attualmente sono 132 i detenuti in attesa di esecuzione. Alcuni aspettano da oltre trent’anni. Uno come abbiamo già ricordato, da 46. Nel frattempo, non possono parlare con nessuno, non possono lavorare, non possono muoversi liberamente all’interno della cella. Un minuzioso regolamento prescrive perfino le posizioni in cui è consentito dormire. E’ giustizia, questa? Per fortuna anche i giapponesi cominciano a chiederselo.
Mihoko Takeuchi, giovane dottoranda dell’Università Waseda di Tokyo, ha dimostrato con un’efficace presentazione che inchieste e sondaggi sul tema, in Giappone, non sono affidabili. Inoltre, ponendo la questione in modo più neutrale e corretto, oltre la metà degli intervistati si dichiara contraria alla pena capitale. La materia su cui lavorare, insomma, c’è. Il Giappone, come ha ricordato l’onorevole Mario Marazziti, nel suo discorso in apertura dei lavori, aveva abolito la pena di morte nel lontano 818, ai tempi dell’imperatore Saga, quando in Europa era invece ovunque praticata. Non è vero dunque che la “vendetta di Stato” sia parte di una lunga e ininterrotta tradizione. “Non è vero che non bisogna interferire negli affari interni di un altro Paese – ha concluso Kamei – quando si tratti con principi universali, come il rispetto della vita, bisogna interferire eccome. Continuate a farlo, perché il Giappone è molto sensibile alla sua immagine internazionale. Dovete mantenere alta la pressione”. Ecco una battaglia che vale la pena condurre, e che ci aiuta a mantenere alta anche la nostra immagine.