Tereza un tempo stava con un certo Yurek, era un gran bell’uomo. Nella finzione letteraria Yurek è diventato Maciej (la sua storia la racconto qui). La loro vicenda è tutta concentrata dentro una nostalgia inenarrabile, una gioventù tradita, il tedium perenne che appartiene a questi uomini scandalosi (in cui trama una specie di gogna, di appello al sesso, di nichilismo). Sono “Avvoltoi che piombano dal cielo come pietre pesanti”, cito ancora da Henry Miller, per quanto ardimentosi e leggendari. Sono polacchi.
Tereza la vedo ancora adesso, penso che sia molto malata, beveva come una dannata anche lei, con Yurek dormivano in stazione, quando capitava Tereza faceva un bagno dall’amico italiano, tornava a posto, tornava a bere. Sembravano detenere un gene superiore per cui le loro disfatte alla fine apparivano pur sempre vittorie, uno strano meschino superomismo pervadeva la loro vicenda da debosciati, non lo erano tutto sommato, erano persi, avevano smarrito quel luogo del tempo e del castigo che talvolta è la memoria.
Yurek morì tre volte, per poi morire davvero una sola, sepolto dai rovi di un parco cittadino, il solito barbone sussurravano irretiti i passanti allora. Yurek morì senza il suo stomaco che l’alcol aveva divorato, il magma malefico di tutte le sue colpe. I polacchi e il loro mondo si mostravano di sbieco, come la grancassa di ogni vizio morale, la carogna di un modo civile fasullo che puzzava oramai putrido. Quando lessi Henry Miller ero una ragazzina, Miller di Tropico del cancro, e mi sembrò abbastanza profetico, cioè oggi mi appare così, di quel che fu il dopo, quel che vidi, Miller esultava con i suoi borderline nel congetturare secondo una sua ragione il ritorno a una primitiva sanità della razza (parole di Mario Paz, in introduzione al romanzo).
Non sono fuori tema, Tereza e Yurek, che venivano da un lontano e sconosciuto voivodato della nazione di Lech Walesa, erano il faro che testimoniava l’autenticità dell’assunto o il medesimo strazio dell’uomo moderno che rivendicava l’anima, uno spirito, foss’anche nazionalista. Tereza e Yurek erano i dannati che affioravano dalle spire dell’inferno, il fuoco della menzogna che l’Occidente aveva contribuito a autenticare, gettando tizzoni ardenti, miope e con la pancia piena. Tereza beveva senza un domani a cui guardare, avevano imparato un po’ tutti – Yurek anche fino alla morte forse – la paziente e metodica arte della dimenticanza, dell’oblio che a scansione seppelliva tutti i morti, chi si lasciava dietro, le speranze e le angosce di chi avevano amato.
Quando racconto di loro, dunque, non racconto di uomini ordinari, posto che nessun uomo lo sia. Dal mio piccolo meschino mondo di provincia, filtrava a tratti una nuova verità, persino il senso delle cose universale, e mi sembrava già un prodigio.