Un rapporto realizzato dall’Associazione 21 luglio in collaborazione con la facoltà di Antropologia culturale dell’Università di Verona mostra come questi bambini siano "vittime di un processo di distacco istituzionalizzato dal proprio contesto di appartenenza". Motivo? Spesso il degrado abitativo. "Ma la soluzione sta nelle politiche sociali"
“Vengono a casa nostra, ce li prendono e non sappiamo che fine fanno. Anche noi abbiamo dei diritti umani, eppure quando hanno dato in adozione i miei due nipoti, nessuno ce lo ha comunicato. Per noi è come se fossero spariti nel nulla”. Questa è solo una delle testimonianze contenute in “Mia madre era rom”, il nuovo rapporto sulle adozioni dei minori rom nel Lazio, realizzato dall’Associazione 21 luglio in collaborazione con la facoltà di Antropologia culturale dell’Università di Verona. La ricerca analizza il fenomeno dei minori rom di Roma e del Lazio che non vivono più presso le proprie famiglie, perché dati in adozione, e si sofferma, in modo particolare, sui casi che il tribunale per i minorenni di Roma ha affrontato dal 2006 al 2012.
“Le cronache degli ultimi giorni sul caso della piccola Maria hanno riportato alla ribalta lo stereotipo secondo cui “rom rubano i bambini” – afferma Carlo Stasolla, presidente dell’Associazione 21 luglio – Non soltanto si tratta di una notizia infondata, come dimostrato da uno studio del 2008 dell’Università di Verona intitolato ‘La zingara rapitrice’ (non risulta alcuna condanna per rapimento di un minore da parte dei rom dal 1986 al 2007) ma, al contrario, sono proprio i minori rom a essere vittime di un processo di allontanamento sistematico e istituzionalizzato dalle proprie famiglie di appartenenza”. Nell’evidenziare questo flusso indiscriminato di bambini rom dalle famiglie di origine a quelle italiane adottive, la ricerca ribalta quindi anche lo stereotipo secondo cui sono i rom ad appropriarsi dei bambini altrui. “La realtà dei fatti, seppur con modalità istituzionalizzate – afferma Stasolla – ci racconta il contrario: sono i minori rom a essere strappati alle proprie famiglie per essere dati in affido e la misura di queste adozioni costituisce un fenomeno di grandi dimensioni su cui è necessario interrogarsi”.
Dati alla mano risulta che un minore rom, rispetto a un suo coetaneo non rom, ha 60 possibilità in più di essere segnalato alla procura della Repubblica presso il tribunale per i minorenni e circa 50 possibilità in più che per lui venga aperta una procedura di adottabilità. Questi numeri si traducono nel dato secondo il quale a Roma e nel Lazio un bambino rom ha 40 possibilità in più di essere dichiarato adottabile rispetto a un bambino non rom. Dal 2006 al 2012, presso il tribunale per i minorenni, è stato segnalato il 6 per cento della popolazione rom minorenne, ovvero 1 minore rom su 17, e lo 0,1%, per quanto riguarda i minori non rom, ovvero 1 minore su 1000.
“Dalla ricerca – afferma Angela Tullio Cataldo, autrice della ricerca – emerge un approccio culturale inadeguato: “Tra gli intervistati la frese più pronunciata è ‘tutti i bambini rom dovrebbero andare in adozione’, c’è un forte utilizzo del termine ‘loro’ rispetto al ‘noi’, che suddivide la società in due gruppi (minoritario e maggioritario), ed emerge con chiarezza l’idea secondo cui ‘l’uguaglianza si realizza attraverso l’adozione’, quando invece dovrebbe realizzarsi attraverso le politiche sociali. C’è poi un approccio politico, che prima confina le famiglie rom nei campi, per poi togliere loro i bambini proprio perché vivono nei campi. Non a caso il maggior numero delle adozioni si verifica tra i bambini provenienti dai campi rom più grandi della Capitale”.
Fondamentale, nell’iter che porta alle adozioni, è il ruolo di giudici, pubblici ministeri e assistenti sociali, “i quali però – prosegue la ricercatrice – sembrano mantenere un forte pregiudizio. Per molti degli intervistati, il degrado abitativo nel quale vive il bambino è da imputare alla volontà dei genitori ed è quindi la stessa cultura rom a renderli figure inadeguate. Raramente si riconosce l’impatto delle politiche sociali sul degrado abitativo in cui vivono molte famiglie rom”.
Una condizione riconosciuta anche negli ultimi rapporti di Amnesty e di Antiziganismo 2.0.“Segregando i rom su base etnica nei cosiddetti campi nomadi, le istituzioni locali prima li condannano a vivere in situazioni di totale degrado e poi sottraggono loro i figli per proteggerli da quel contesto inadeguato alla fruizione dei diritti dell’infanzia, che gli stessi amministratori hanno creato. In tal senso, dare un bambino rom in adozione diventa uno strumento utilizzato dalle istituzioni per ripristinare l’uguaglianza dei diritti dell’infanzia rom rispetto a quella non rom. Un’uguaglianza che dovrebbe essere invece realizzata con le politiche sociali”.