All’inizio fu anticipo scolastico: Letizia Moratti e l’idea di solleticare il precocismo dell’italo genitore, convinto di custodire un pargolo geniale, destinato a magnifiche sorti socio-professionali, da favorire con l’entrata anticipata in prima elementare – nessuno è mai riuscito a dire “prima primaria”. In verità ci aveva già provato in precedenza Luigi Berlinguer, con scarsa fortuna.
Messa in soffitta per un po’ la proposta, eccola ripresa dal mediatico Profumo (quello delle 24 ore di lezione a parità di salario, per altro sempre più eroso dal’’inflazione), che – nell’atto di indirizzo concernente le priorità politiche per il 2013 – dichiarò: “Occorre superare la maggiore durata del corso di studi procedendo alla relativa riduzione di un anno, in connessione anche alla destinazione delle maggiori risorse disponibili per il miglioramento della qualità e della quantità dell’offerta formativa, ampliando anche i servizi di istruzione e formazione“. Un altro tassello nell’implacabile percorso di distruzione della scuola, perseguito con accanimento – e con strategico accerchiamento da più parti – nel corso degli ultimi anni. Il miglioramento dell’offerta formativa, il rispetto del diritto allo studio e all’apprendimento, sia chiaro, non c’entrano assolutamente niente.
Quello che c’entra è – volgarmente ma inequivocabilmente – la borsa. Fare cassa sulla scuola è uno dei must che la globalizzazione di economia e ‘Pensiero Unico’ hanno imposto al nostro Paese, eccellente in questo campo per zelo realizzativo e persino “creativo”. Tagliati posti di lavoro e saperi, accorpate scuole creando mostri amministrativi e ambienti anti-didattici, umiliati inidonei, allentati i termini delle pensioni, annullati gli scatti, bloccati i contratti, i nostri eroi hanno riscoperto la non sopita tentazione di un ulteriore giro di vite alla devoluzione della scuola pubblica. E qui il piatto è ricco: circa un miliardo e mezzo di euro. E così torna alla carica l’ondivaga Carrozza (quella che dice che vuole rivedere il sistema Invalsi, inadeguato; e 4 giorni dopo afferma di volerlo estendere all’università) che ha autorizzato la “sperimentazione” di un percorso liceale da 5 a 4 anni presso il liceo Internazionale per l’Impresa Guido Carli di Brescia, annunciando già – la ministra del Pd – che “si tratta di un’esperienza che dovrebbe diventare un modello in tutta Italia anche per la scuola pubblica”.
“Ce lo chiede l’Europa”: è questa la “nobile” finalità, attraverso la quale ci hanno fatto – più o meno – ingozzare i peggiori bocconi amari di questi ultimi anni. Anche in questo caso il ritornello è il medesimo. Ma, oltre a sottolineare che siamo il paese Ue che più ha disinvestito rispetto all’istruzione nei 5 anni della crisi, sconfessando le tendenze all’investimento dei principali paesi europei, e che questo ha evidentemente condizionato il nostro sistema scolastico, rispetto al quale non possiamo – considerate le diverse condizioni – applicare acriticamente provvedimenti e tendenze applicati a sistemi di ben altro spessore, dobbiamo riscontrare che il noto refrain non corrisponde alla realtà. Terminano tutti i tipi di scuola a 19 anni in Bulgaria, Danimarca, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Slovenia, Slovacchia, Finlandia e Svezia, in Germania il liceo e alcuni professionali, in Scozia solo questi ultimi. Nella Repubblica Ceca, in Lussemburgo e Romania la maggior parte delle scuole arriva a 19 anni. In Ungheria e in Romania gli studenti che non continuano all’università fanno un anno in più di superiori, come accade in Grecia e Cipro per licei, serali e professionali in alternanza, che in Austria e nei Paesi Bassi vanno 1 o 2 anni oltre il limite dei 18.
“A cosa serve, questa ‘sperimentazione” – osserva Cosimo De Nitto su Retescuole – senza un dibattito, senza consultare il corpo scolastico, il Cnpi, i sindacati, l’associazionismo professionale ecc. ecc., con un puro atto verticistico in una materia così delicata che rifiuta il verticismo per le infinite implicazioni che comporta, interne ed esterne alla scuola, riguardando l’organizzazione di vita dei singoli soggetti e l’organizzazione della vita associata e lavorativa allo stesso tempo dell’intero corpo sociale?”. A cosa serva, ammesso che si possa attribuire al termine sperimentazione il significato che generalmente si assegna alla parola, Di Nitto lo sa benissimo, perché è evidente da un semplice calcolo: il taglio di un anno di scuola corrisponde alla decurtazione di quarantamila cattedre. E, in secondo luogo, a ribadire che ai nostri eroi dell'”ascolto” non importa proprio niente.
E così la già mortificata e prosciugata scuola statale pagherebbe l’ennesimo tributo all’egemonia dello spread e alla salvaguardia di evasione, poteri e poterucoli, privilegi e sprechi. Smettiamo di riempirci la bocca di Costituzione, diritti, centralità degli individui, cultura e scolarizzazione emancipanti: al centrosinistra, come alla destra, al governo delle larghe intese come alle opposizioni, ‘sta roba interessa poco o niente. Cosa altro devono fare per farcelo capire?
“C’è, nell’iniziativa della ministra Carrozza, un messaggio dal forte valore simbolico che io credo non vada sottovalutato. Tre scuole private sono state chiamate a guidare un processo di innovazione che, in prospettiva, potrebbe essere generalizzato a tutte le scuole statali. Più volte la ministra ha dichiarato di considerare sullo stesso piano le scuole pubbliche e quelle private, ora ci indica che sono queste ultime alla testa del sistema. Un’altra linea di confine è stata varcata, un’altra pietra del muro che doveva proteggere il mandato costituzionale della scuola pubblica è stata demolita“. Così Vito Meloni, responsabile scuola di Rifondazione Comunista. In un colpo (di mano) solo Carrozza ha concretizzato almeno tre dei grandi problemi che hanno afflitto la scuola nel tempo: la logica dei tagli; l’equipollenza tra paritario e pubblico, addirittura con l’inversione della parti; assoluta autoreferenzialità e autismo istituzionale. Come al solito a segnalarsi per impazienza esecutiva dei diktat del neoliberismo sono particolarmente loro, i ministri “amici” (sic!). Dal 1997, con l’autonomia, passando per legge di parità, istituzione della dirigenza scolastica e riforma del Titolo V della Costituzione hanno addirittura surclassato la destra rispetto alla rincorsa allo smontaggio, pezzo pezzo, della scuola della Repubblica.
Matteo Renzi e i suoi profeti, che ormai infestano le arene televisive, non promettono sorprese nell’assecondare questa deriva.