I soggetti di Lee Jeffries sono persone senza fissa dimora, emarginati, uomini e donne esclusi dall’attività sociale e incontrati per caso, camminando per le strade dell’Europa e degli Stati Uniti. Scatti intensi e fortemente comunicativi che, mi dirà il fotografo raggiunto per un’intervista, sono stati voluti per catturare lo spettatore sul piano umano. “Gli occhi – mi dice- mettono a fuoco le emozioni umane, parlano un linguaggio universale e rappresentano la verità; e mi piace pensare che sono riuscito a catturare qualcosa che colpisce perché le mie immagini non sono semplici ritratti ma tessere artistiche che vanno assemblate e che richiedono un’analisi per essere comprese”.
Immagini complesse e manipolate al pc, solo per accentuare il bianco e nero. “I computer sono la nostra moderna camera oscura. Detto questo io non voglio entrare in un lungo dibattito sul ‘processo’, che lascio discutere e valutare agli altri. Il mio scopo è stato quello di produrre un’immagine abbastanza potente da trascinare l’immaginazione dell’osservatore”. Poi racconta come è nato “Homeless”, frutto di uno scatto rubato a Londra cinque anni fa. “Ero a Londra per correre la maratona. Il giorno prima della gara ero in giro, tra le strade di Londra, con la mia macchina fotografica e ho rubato uno scatto ad una giovane ragazza senzatetto, rannicchiata in un sacco a pelo dal lato opposto della strada. Appena se ne accorse cominciò a gridare contro di me. Sul momento ho pensato ‘o me ne vado o vado a parlarle’. Ho scelto di andare a parlare con lei e da quel momento ho cambiato per sempre il mio approccio alla fotografia. Questo incidente mi ha insegnato ad essere rispettoso e a non rubare le immagini senza autorizzazione”. Un ‘imprevisto’ che gli ha permesso, però, di creare anche un foto-progetto unico che racconta storie di sofferenza e disagio. Storie per immagini raccolte tra vie di Londra, Parigi, Roma, New York, Miami, Los Angeles o Las Vegas. “Un’esplorazione della spiritualità dell’essere umani – mi spiega- come un auto-esame di coscienza, sia per me che l’osservatore”.